Cronaca

Uccise la figlia di 5 anni, i motivi della condanna: dal giudizio morale al movente mancante

Il giorno in cui Elena Del Pozzo avrebbe compiuto sette anni, sua madre, Martina Patti, è stata condannata a trent’anni di carcere per averla uccisa con 16 coltellate, per avere occultato il suo cadavere e per avere inscenato il suo finto rapimento. Gli avvocati che la difendono, Tommaso Tamburino e Gabriele Celesti, hanno presentato ricorso in Appello e la prima udienza del processo di secondo grado è già stata fissata per lunedì 14 aprile. Intanto sono state pubblicate le motivazioni che hanno portato la Corte d’Assise di Catania, presieduta da Sebastiano Mignemi, alla condanna della 24enne reaconfessa.

Il giudizio (anche) morale

«La condotta delittuosa realizzata dall’imputata – si legge nelle motivazioni della sentenza – costituisce la rappresentazione della più grave forma di reato che l’ordinamento giuridico contempla. E ciò per la semplice considerazione che appare come il fatto umano caratterizzato dalla più grave e inusitata disumanità». A pochi giorni dall’infanticidio, per rispondere ai giudizi affrettati di molti, era stato il criminologo Roberto Gennaro a spiegare, in un approfondimento di MeridioNews, che le madri che uccidono i figli «non sono dei mostri disumani». «Sebbene le sentenze penali non debbano costituire luogo per espressione di giudizi morali – si legge nelle stessa sentenza – la Corte non può non rilevare che la complessiva lettura delle imputazioni descrive un vuoto morale da condannare senza tentennamenti».

La tesi «infondata» del suicidio altruistico

Era stato lo psichiatra Antonio Petralia a parlare di «infanticidio altruistico» compiuto in una «bolla dissociativa» che avrebbe compromesso le capacità di intendere e di volere. Per il consulente della difesa, il primo intento della donna sarebbe stato quello di togliersi la vita; da qui sarebbe scaturita l’idea di uccidere la figlia per non farla soffrire. Una tesi reputata «infondata» dalla Corte, secondo cui, invece, ci sarebbero diversi elementi che dimostrano il contrario: «Il primo e più rilevante – scrive il presidente Mignemi – è che non venne mai detto da Patti, nell’immediatezza, “mi volevo uccidere, per questo ho ucciso”». Non ci sarebbe poi «nessun aspetto oggettivo che provi un intento autolesionistico»: non una ferita, né un ematoma e neppure un graffio. «Bere candeggina si muore?», è la domanda che la 24enne fa al motore di ricerca sul web il giorno prima del delitto. Per la Corte non sarebbe stato un modo per suicidarsi bevendo la sostanza, ma per «acquisire conoscenze sui mezzi idonei a cagionare la morte» della figlia. Della «bolla dissociativa», infine, la Corte non riconosce un inizio e una fine. Motivo per cui non crede che la donna abbia abbandonato il proposito suicidario dopo avere visto le proprie mani sporche del sangue della bambina appena uccisa.

«Lucidissima»

Ed è sulla base di queste premesse che, per la Corte, nell’immediatezza dell’omicidio Martina Patti sarebbe «lucidissima, tanto da occultare il cadavere, disfarsi dell’arma del delitto (un coltello portato da casa, ndr)», tornare a casa, lavarsi e cambiarsi i vestiti. Per chi l’ha condannata a trent’anni di carcere ci sarebbe stata una «programmazione attenta della realizzazione del delitto»: la donna, infatti, avrebbe scelto un luogo isolato (il terreno incolto a Mascalucia non lontano dall’abitazione), un orario comodo, inventato alla figlia la scusa di un momento di gioco, portato da casa l’arma del delitto (mai ritrovata), predisposto i mezzi per occultare poi il cadavere e, infine, simulato il rapimento da parte di un commando armato. «Non c’è nessun fatto scatenante capace di spiegare questo passaggio dalla piena capacità al blackout», si legge nelle motivazioni della sentenza, dove anzi viene aggiunto che «i fatti accaduti, letti secondo logica e buon senso, dicono che v’è una costante capacità di autodeterminarsi di livello elevato».

Il movente mancante

Su una cosa, di certo, la Corte conviene con la tesi difensiva: la mancanza di un movente. «Più che un vero e proprio movente in senso tecnico – si legge nella sentenza – sono emerse indicazioni dalle quali trarre la scaturigine della tremenda ed efferata condotta». Tutti concordi, insomma, sul fatto che dietro l’infanticidio ci sia «una pluralità di fattori»: il primo sarebbe il «bilancio profondamente negativo» della travagliata relazione con Alessandro Del Pozzo, il papà della bambina, che Martina Patti aveva denunciato per maltrattamenti (salvo poi ritirare la denuncia). Per la Corte si tratta di «un normale senso di sconfitta provato da tantissime persone nella vita, ma nessuna depressione». Ad ampliare il senso di fallimento della ragazza si sarebbe aggiunta la brusca fine del breve rapporto – appena qualche settimana – con Francesco Nicosia. «In questa spirale di vita, la figura della piccola Elena assume dei contorni ingombranti – si legge nella sentenza – La bambina, agli occhi della madre, da una parte era destinata ad avere un’altra figura femminile (la nuova compagna del padre, ndr) che l’avrebbe potuta offuscare e, dall’altra, si era dimostrata d’impaccio perché una relazione assumesse carattere di stabilità e profondità». Queste sarebbero le «ingiustificabili ragioni» che secondo la Corte – la quale non ha riconosciuto nessuna malattia mentale all’imputata – avrebbero spinto Patti a uccidere la figlia di cinque anni.

Marta Silvestre

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