Infanticidio Elena Del Pozzo, condannata la madre. «Oggi avrebbe compiuto sette anni»

Oggi Elena Del Pozzo avrebbe compiuto sette anni. E oggi è stata pronunciata la sentenza di condanna a trenta anni di carcere per la madre 25enne Martina Patti, imputata per averla uccisa con almeno undici coltellate nel giugno del 2022 a Mascalucia (in provincia di Catania) per avere occultato il suo cadavere e per avere inscenato il suo rapimento da parte di un commando armato. A pronunciare la sentenza è stata la prima Corte d’assise di Catania, presieduta da Sebastiano Mignemi. Nel corso della scorsa udienza, la procura aveva chiesto una condanna a trent’anni. Oggi a prendere la parola sono stati gli avvocati che la difendono, Tommaso Tamburino e Gabriele Celesti, che hanno chiesto la non imputabilità di Patti e quindi la sua assoluzione per incapacità di intendere e di volere. In subordine, i legali difensori hanno chiesto il riconoscimento delle attenuanti generiche e l’esclusione dell’aggravante della premeditazione.

Una lunga udienza quella di questa mattina nell’aula Serafino Famà del tribunale di Catania interamente dedicata alla difesa che l’imputata – che si è dichiarata colpevole durante il suo interrogatorio – ha seguito dalla cella. Tra il pubblico anche i suoi genitori, come sempre, presenti. Il primo a prendere parola è stato l’avvocato Tamburino che, in un dettagliato intervento, ha ripercorso l’intero procedimento. Dall’inizio della relazione con il suo ex compagno e padre della bambina Alessandro Del Pozzo fino al giorno dell’infanticidio. «I pubblici ministeri, che non hanno riconosciuto nemmeno il vizio parziale di mente – sottolinea il legale – si chiedono come sia possibile che Martina Patti abbia agito in una bolla dissociativa. Io, invece, mi chiedo come sia possibile il contrario».

Nella ricostruzione della difesa, la giovane avrebbe «accumulato per sei anni ansie, frustrazioni e fallimenti e si era chiusa in se stessa. Non poteva sfogarsi nemmeno con la madre e il padre che, sin dall’inizio, erano contrari a quella relazione con Del Pozzo per via delle sue vicende giudiziarie». A questa realtà, si sarebbero aggiunge le bocciature agli esami dell’università e la fine, dopo appena un mese, di nuova relazione con Francesco Nicosia. «Soprattutto – aggiunge l’avvocato – a un certo punto arrivano le parole di Elena e Martina teme che possa soffrire come lei». In questo clima, sarebbe maturata la decisione dell’«infanticidio altruistico», come lo ha definito il consulente della difesa, lo psichiatra Antonino Petralia che con la donna in carcere ha avuto trenta incontri. «L’intenzione prioritaria sarebbe stata quella di suicidarsi – ribadisce Tamburino ricordando che per tre volte nei giorni precedenti la giovane ha cercato online notizie sulla morta provocata dal bere candeggina – Ma poi, ha pensato: “Con chi resta la bambina?”».

«Capisco che il concetto di infanticidio altruistico sia difficile da comprendere – afferma il legale – perché sembrano concetti contrastanti tra loro: per prevenire una presunta futura sofferenza del figlio, la donna pianifica il proprio suicidio, poi pensa che il figlio soffrirà senza cura e abbandonato. E, allora, lo include nel suo tragico destino». Come nel 40 per cento dei casi del genere, dopo il figlicidio non avviene il suicidio. «In questo caso – aggiunge Tamburino – perché la donna, appena vede il sangue sulle sue braccia, esce dallo stato dissociativo». Una teoria che, per la difesa, avrebbe a sostegno anche le stesse dichiarazioni che Martina Patti ha reso in diversi momenti. Quando viene interrogata la prima volta subito dopo la confessione fatta al padre, dice: «Non ricordo cosa sia passato nella mia mente, anzi non mi è passato nessun pensiero. Era come se fossi stata una persona diversa. Avevo una forza che non avevo mai avuto prima». Una ricostruzione che, in altri termini, fornirà anche al perito incaricato dalla procura, lo psicologo Roberto Cafiso, che in carcere l’ha incontrata due volte: «Avevo una forza che non ho riconosciuto, un demone si era impossessato di me».

È l’avvocato Gabriele Celesti a concentrarsi poi sul movente di questo delitto. «La ricerca di un movente chiaro e preciso è destinata a non avere frutti. Si è accennato alla sindrome di Medea e anche alla fine della breve nuova relazione. Ma nessuna ipotesi ha retto – chiarisce il legale – Ci spaventano le oscurità e gli sfasamenti della mente ma noi siamo convinti che siano state delle situazioni di vita ordinaria ad avere incido su una mente che aveva i suoi problemi». Dopo le repliche del pubblico ministero, a prendere parola è stata anche l’avvocata di parte civile Barbara Ronsivalle: «Oggi Elena non potrà spegnere le candeline o mangiare una fetta della sua torta di compleanno, ma speriamo che in questa aula oggi abbia giustizia».


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