«Quando uccide la figlia Elena, che è stato il suo antidepressivo, Martina Patti uccide anche se stessa». È la conclusione a cui sono arrivati i due psichiatri, consulenti della difesa, che oggi sono stati stati sentiti nell’aula del tribunale di Catania in cui si sta svolgendo il processo d’Appello. La 26enne reaconfessa, che oggi era […]
Processo Martina Patti, i periti: «La figlia era il suo antidepressivo, ha ucciso sé stessa»
«Quando uccide la figlia Elena, che è stato il suo antidepressivo, Martina Patti uccide anche se stessa». È la conclusione a cui sono arrivati i due psichiatri, consulenti della difesa, che oggi sono stati stati sentiti nell’aula del tribunale di Catania in cui si sta svolgendo il processo d’Appello. La 26enne reaconfessa, che oggi era presente, in primo grado è già stata condannata a trent’anni di carcere. Il punto adesso è stabilire se e quanto fosse capace di intendere e di volere quando ha ucciso la figlia di quattro anni Elena Del Pozzo con 16 coltellate. E poi quando ha occultato il suo cadavere in un terreno vicino casa a Mascalucia (in provincia di Catania) e quando ha inscenato il suo finto rapimento da parte di un commando armato. Per i consulenti della difesa Martina Patti avrebbe un vizio parziale di mente.
Il vizio parziale di mente per Martina Patti
I due periti nominati dalla Corte d’Assise d’Appello di Catania, nel corso della scorsa udienza, avevano sostenuto che la donna era capace di intendere e di volere e, quindi, è imputabile. Una consulenza giudicata «limitata, frettolosa e carente» dai consulenti della difesa ,che oggi sono stati sentiti per quasi tre ore. Gli psichiatri Antonino Petralia e Enrico Zanarda sostengono, infatti, che «c’è un vizio parziale di mente. Dovuto a una sommatoria di cose: una struttura della personalità molto fragile, un grave disturbo di personalità di tipo borderline e narcisistico su cui si innesta uno stato depressivo».
Elementi a cui si aggiungere lo stress per le situazioni percepite come fallimenti in diversi ambiti: la fine della relazione tormentata e, a tratti violenta, con il suo compagno e padre della bambina Alessandro Del Pozzo, la bocciatura a un’esame dell’università e la brusca interruzione di un rapporto appena iniziato. L’incapacità, però, non è totale perché mancano in Martina Patti gli elementi per una psicosi: non ci sono, per esempio, né allucinazioni né delirio. «Arriva, però, poi – aggiungono i consulenti – la bolla dissociativa» che, appunto, ne avrebbe compromesso le capacità di intendere e di volere.
La bolla dissociativa perforata
È una locuzione su cui si è molto dibattuto quella di «bolla dissociativa». I periti della procura, con un certo scetticismo, l’avevano definita un «concetto improprio». Supportato da alcuni testi di psicopatologia e neuropsicologia, Petralia ha chiarito che si tratta di «uno stato dissociativo acuto in cui il soggetto non è in contatto con la realtà esterna e interna. Insomma, è come se si staccasse la spina rispetto a ciò che accade attorno e, quindi, si crea una disconnessione». Fin dal mattino, la donna dice «Non ero io, non ero me stessa». E, all’indomani dell’infanticidio, parlando con lo psicologo della procura Roberto Cafiso, fa riferimento a un «demone» che le avrebbe dato «una forza sovrannaturale».

Per Martina Patti, la fase acuta prima della bolla dissociativa, sarebbe durata circa mezz’ora. «È iniziata quando, sulle scale, torna indietro per prendere il coltello in cucina. Da quel momento – sottolinea lo psichiatra che in carcere con lei ha avuto una trentina di incontri in circa tre anni – sarebbe entrata in una sorta di automatismo motorio». Fino a quando la bolla dissociativa non è stata poi «perforata da una stimolazione – continua Petralia – che, nel caso di Martina Patti, è stata vedere le mani insanguinate». Da lì la donna avrebbe ricominciato, in modo graduale, a riprendere contatto con la realtà. «La coscienza comincia a tornare e, a quel punto, si sono innescati – sostengono i consulenti della difesa – la rimozione, la negazione e la proiezione. Meccanismi inconsci di difesa a livello psichico per un trauma che non può essere accettato dallo stesso soggetto che lo ha compiuto». Una mente quella di Martina Patti in cui, per i consulenti della difesa, ci sarebbe almeno un vizio parziale.
La depressione reattiva e il vizio di mente per Martina Patti
I periti della corte avevano escluso che Martina Patti potesse avere una forma depressiva. «Questo perché – affermano i consulenti di parte – hanno considerato solo la depressione di tipo melanconico». Quella della donna, invece, sarebbe una depressione reattiva agli stimoli esterni con manifestazioni atipiche. «Ed Elena è stato un antidepressivo per Martina Patti. Tanto che – aggiungono Petralia e Zanarda – quando vede la bambina che soffre, ha un crollo delle difese dell’io. Così arriva la dissociazione». Ed è seguendo questo percorso che lo psichiatra Petralia ha dedotto il concetto di «infanticidio altruistico». Che avrebbe dovuto essere inserito nel contesto di un omicidio-suicidio.
Uccide la bambina, uccide se stessa
Stando alla letteratura a disposizione, che i consulenti della difesa hanno citato in aula, il suicidio della madre si attua solo nel 30 per cento dei casi. Sali al 50 per cento quando ad ammazzare un figlio è il padre. «In questo caso – spiega Petralia – molto dipende anche dal rapporto simbiotico e funzionale tra Martina Patti e la figlia. La bambina era parte di sé. Per questo, uccidendo la bambina uccide anche se stessa». Ed era stata lei stessa, durante le dichiarazioni spontanee, che «Quel giorno sono morta anche io». Per lo psichiatra Zanardi, infatti, «quando nasce la figlia, si crea una fusione dell’identità con la bambina che diventa la parte migliore di sé». Ed ecco, dunque, il motivo per cui, secondo i consulenti di parte, dopo il figlicidio, Martina Patti il suicidio non lo tenta nemmeno: «Uccidendo la figlia, ha già ucciso la parte migliore di se stessa».
Leggi lo speciale di MeridioNews sull’infanticidio di Elena Del Pozzo.