«Quando ho compiuto quel gesto non ero io. Adesso ho capito quanto è importante chiedere aiuto in situazioni di profondo sconforto, che non è vergogna». Ha parlato per quasi mezz’ora senza mai prendere fiato, trattenendo le lacrime che trapelano solo dal tono della voce, Martina Patti. La 25enne, già condannata in primo grado a trent’anni di carcere, che […]
Parla Martina Patti, la donna che uccise la figlia a Mascalucia: «Non ero me stessa, avrei dovuto chiedere aiuto prima»
«Quando ho compiuto quel gesto non ero io. Adesso ho capito quanto è importante chiedere aiuto in situazioni di profondo sconforto, che non è vergogna». Ha parlato per quasi mezz’ora senza mai prendere fiato, trattenendo le lacrime che trapelano solo dal tono della voce, Martina Patti. La 25enne, già condannata in primo grado a trent’anni di carcere, che a giugno del 2022 a Mascalucia (in provincia di Catania) ha ucciso sua figlia Elena Del Pozzo di quattro anni con 16 coltellate, ha occultato il cadavere e ha finto il rapimento della bambina da parte di un commando armato. «Non mi rispecchio in quella persona. Continuo a chiedermi perché sia successo proprio a me», ha detto la donna nel corso delle dichiarazioni spontanee che ha reso questa mattina, in un’aula al secondo piano del tribunale di Catania dove si sta celebrando il processo d’Appello.
Ad ascoltare le sue parole, ci sono i genitori e anche alcuni amici di famiglia che, in questi quasi tre anni, non l’hanno mai lasciata sola. Nella richiesta dell’appello, i suoi legali – Tommaso Tamburino e Gabriele Celesti – avevano chiesto «la disamina dei controversi aspetti psicologici» per accertare se fosse «consapevole del significato delle proprie azioni». Le due consulenze già depositate – quella del perito incaricato dalla procura, lo psicologo Roberto Cafiso, e quella dello psichiatra Antonino Petralia, consulente della difesa – arrivano a due conclusioni opposte. Adesso, dopo un rigetto in primo grado, è stata accolta dalla Corte la richiesta, arrivata anche dalla procura, di una nuova perizia sulla donna per accertare la sua capacità di partecipare al processo, la capacità di intendere e volere e verificare l’eventualità di disturbi mentali o di personalità.
«Non dimentico mai la prima domanda che mi fece il presidente», ha esordito Patti ricordando quando, durante il suo esame nel corso del processo di primo grado, le fu chiesto di dichiararsi colpevole o innocente. «Risposi che ero colpevole e lo dico ancora». Qualcosa, però, in questi tre anni, per la donna è cambiato. «Ci sono domande che restano, ma ho riflettuto e a qualche risposta sono arrivata». Un punto di un percorso che Patti sta facendo in carcere con lo psichiatra e una psicologa. «I primi incontri sono stati difficili – ammette – soprattutto per il mio carattere chiuso. Ho capito che tenevo tutto dentro per paura di essere giudicata». Così, prima scrivendo e poi parlando, la donna è riuscita ad aprirsi. «Ero in un periodo difficile, vedevo tutto nero dentro un tunnel e il mondo mi è crollato addosso», ha ricostruito Patti tornando sul rapporto con Alessandro Del Pozzo, il suo ex e padre della bambina.
«Una relazione in cui ho messo tutta me stessa, ma mi sono chiusa: mi ha precluso di avere amici, di uscire, non parlavo più con nessuno. Ho subito violenza fisica ma – sottolinea – soprattutto psicologica. Pensavo solo a fare stare bene mia figlia». Poi arriva anche la bocciatura all’esame universitario e la fine di una frequentazione appena cominciata con Francesco Nicosia: «Ero già sul filo di un rasoio e – afferma Patti – ho sentito di avere fallito in tutto». Una ricostruzione che solo a distanza di tempo, Patti è stata capace di elaborare. «Probabilmente – ammette – avevo una depressione ma indossavo una maschera con tutti». Una maschera che poi si sarebbe sgretolata. «Qualche giorno prima, ho letto un articolo online di una donna vittima di violenza domestica che, per farla finita, aveva bevuto della candeggina». L’idea la sfiora e fa delle ricerche online. «Volevo fare male a me stessa, non alla bambina e – aggiunge Patti – quando ho scavato la buca con le mani e l’ho ricoperta con un po’ di terra, l’ho fatto non per nasconderla ma per proteggerla. Poi sono scappata con l’idea di farla finita».
Quel concetto di «infanticidio altruistico» spiegato a parole sue da Martina Patti che, nel corso delle sue dichiarazioni spontanee ha fatto anche riferimento alla donna che a fine aprile a Misterbianco (nel Catanese) ha lanciato la figlia di pochi mesi dal balcone. «Non c’è momento in cui non pensi a Elena e a quello che è accaduto. La sua mancanza mi tormenta, mi logora dentro. Sento la sua voce nelle orecchie ogni giorno. Io la amo e la amerò per sempre. Adesso so che avrei dovuto chiedere aiuto prima e non pensare di potere risolvere tutto da sola». Una dichiarazione che sembra quasi un appello ad altre madri. «Chiedo scusa a Elena, a me stessa, ai nonni, al padre e a tutti quelli che hanno voluto bene a mia figlia», conclude la donna. Nel corso della prossima udienza, già fissata per lunedì 26 maggio, verrà conferito l’incarico ai due consulenti (uno psicologo e uno psichiatra) nominati dalla procura per redigere una nuova perizia.