Una fiaccolata per chiedere verità sulla morte di Matteo «Una richiesta legittima, abbiamo tutti perso qualcosa»

Si chiamava Matteo Tresa, aveva 37 anni e per tutti quelli che lo conoscevano, a Ballarò, era mani d’oro, perché di mestiere montava condizionatori e ci sapeva fare. È morto tre giorni fa dentro a un minimarket in via Maqueda, durante un tentativo di rapina andato male, in circostanze di cui ad oggi si sa poco e niente malgrado le numerose ipotesi che si sono rincorse sui giornali. Gli amici di una vita, che di lui conoscevano doti e fragilità soprattutto, chiedono a gran voce adesso che venga fatta presto chiarezza su quello che gli è accaduto la notte in cui ha perso la vita, in modo che si possa garantire giustizia a lui e alla sua famiglia. Una richiesta spontanea, doverosa, che è stata raccolta da chi opera da anni nel quartiere, Sos Ballarò in testa, che ha rilanciato il messaggio attraverso un appuntamento fissato per questa sera alle 21: una fiaccolata, che partirà simbolicamente da via Porta di Castro. Un’iniziativa che, a parte qualche isolata critica, sta raccogliendo parecchi consensi, specie dalla gente del quartiere, che Matteo lo conosceva. Non un momento per santificare un ragazzo che, senza troppa retorica o banale sentimentalismo, ha avuto una vita difficile, ma per chiedere che si ricostruisca con precisione e puntualità cosa lo abbia portato a morire in quel modo.

«Si è parlato di un tentativo di furto, ma le dinamiche non sono affatto chiare e sul suo corpo non sembrerebbero esserci segni di percosse o altro. Insomma, è morto per un collasso o per un accanimento sul suo corpo? Non è per niente chiaro», osserva Massimo Castiglia, presidente di circoscrizione, tra quelli che ha deciso di raccogliere la richiesta avanzata dagli amici di Matteo. «Sarà una manifestazione pacifica, quella di questa sera – dice subito -, non interessa esasperare i toni né santificare nessuno. Ballarò è un luogo pacifico e la richiesta che adesso sposa viene direttamente da chi lo conosceva. Speriamo non ci siano tensioni legate alla comunità bengalese, che ha diversi attività commerciali nel quartiere e in via Maqueda, una comunità che potrebbe sentirsi in qualche modo messa in difficoltà da questa situazione. Alcuni esponenti della comunità bengalese, intanto, hanno chiesto di partecipare questa sera, anche loro vogliono che venga fatta chiarezza e che si giunga presto alla verità su quella notte. Nessuno vuole episodi di intolleranza». Le critiche non spaventano, quindi, alla luce del presupposto che «questa è una richiesta legittima rispetto a quanto accaduto, che dovrà essere stabilito da chi è preposto a farlo, non ci serve una giustizia sommaria decisa da chi ci governa, ad esempio, e sponsorizza l’autodifesa».

È una vita segnata, a un certo punto, dalla tossicodipendenza, quella di Matteo. Entrato in un tunnel dal quale ancora faticava a venir fuori, che lo portava a commettere a volte piccoli furti pur di riuscire a comprarsi una dose. Malgrado il supporto di alcune comunità in cui era stato e della sua famiglia, che lo ha sempre sostenuto. «Persone normalissime ma straordinarie nello stesso tempo, grandi lavoratori – racconta Castiglia -, si alzano alle tre di notte per andare a lavorare in un panificio, mentre un fratello di Matteo lavora in un supermercato e la mamma, nonostante la sua età avanzata, fa le pulizie». Sono stati anni bui anche per loro, questi affrontati insieme a Matteo. Tutti insieme hanno lottato contro quel mostro chiamato tossicodipendenza, «subendo le peggiori schifezze». Con la sua morte, ne è convinto Massimo Castiglia, «abbiamo perso un po’ tutti, perché non siamo riusciti a ricondurlo a una vita regolare. Perdiamo anche nella misura in cui non siamo in grado di affrontare la complessità che porta poi, attraverso questi fatti eclatanti, ad interrogarsi su come sarebbe stata la sua vita se non avesse usate le sostanze. Questo riguarda tutti, la società non è stata in grado di saper intervenire in maniera forte».

Malgrado l’impulso principale, chiaramente, dovesse venire proprio da Matteo e dalla sua volontà. Che ieri, ironia della sorte, avrebbe avuto un colloquio con una comunità di Trabia per un possibile inserimento per potersi disintossicare. Una circostanza che lascia adesso tanta amarezza. E che è un quartiere intero a sentire, compresa quella stessa comunità bengalese, per la quale questa «non è una questione di bianchi o neri, ma di verità ed eventualmente giustizia». «Non sono per niente convinto delle espressioni di alcuni giovani del quartiere che quasi lo hanno fatto diventare un eroe – aggiunge Castiglia -. Ma è pur vero che ci sta, nella sofferenza e nella gestione collettiva di un lutto come questo». E, infine, un invito al silenzio a chi oggi sente di dover criticare a tutti i costi l’iniziativa di stasera, compresa la vita (e la morte) di un ragazzo di cui, in fondo, non si sa nulla. «Matteo nel quartiere lo conoscevano tutti e non era un eroe: ne aveva combinate tantissime nella sua breve e sfortunata vita. Gli erano capitate delle pessime carte da giocarsi, per spiegarla col poker, e lui come tanti altri nel quartiere si annacàva sopravvivendo con espedienti legali ed illegali», racconta anche Fausto Melluso, consigliere comunale di Sinistra Comune, recentemente subentrato a Giusto Catania.

«Un mio vicino, che era un suo grande amico, una volta mi disse “Io ci nascivi delinquente”, per dirmi come quella vita scombinata non se l’era certo scelta, ma c’era entrato in un’età in cui noi avevamo ancora il privilegio di essere considerati bambini – prosegue -. Non vedo perché una comunità non debba piangere i suoi figli, tutti. Non si tratta di celebrare un rapinatore o negare la responsabilità di ogni individuo sulle sue azioni, ma di dire che le persone non devono morire così e, soprattutto, che Matteo era una persona che si meritava una vita migliore».


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