Cosa dovremmo imparare dal 2023

Dodici mesi, 52 settimane e 365 giorni (attenzione, il 2024 è bisestile e quindi avremo un giorno in più di cui lamentarci). Un tempo legato da un unico filo: l’inadeguatezza. Culturale, innanzitutto, ma anche materiale, davanti ai temi complessi, vecchi e nuovi. Difficoltà resa evidente dagli argomenti che hanno dominato il 2023 siciliano; su tutti, la mafia e i femminicidi. Entrambi argomenti su cui ci siamo scoperti (a volerci assolvere) o confermati (con maggiore realismo) del tutto inadeguati appunto. E su cui forse vale la pena ragionare in questo simbolico primo giorno dell’anno non per stilare un elenco di buoni propositi – che è il modo migliore per dimenticarsene – ma quanto meno un personale piano di consapevolezza civica. Che, a voler guardare con le lenti dell’ottimismo di inizio anno, ci porti a legare tra loro parole e azioni, tornando a dare senso alle scelte collettive. Come, ad esempio, non accettare candidati alle più alte cariche politiche locali scelti meno di un mese prima delle elezioni (vero altro trend degli ultimi anni, rafforzato nel 2023).

Ad aprire l’anno appena trascorso è stato, a gennaio scorso, l’arresto del boss Matteo Messina Denaro, dopo oltre trent’anni di latitanza. Un fatto che ha proiettato la Sicilia sui notiziari di tutto il mondo, con titoli pressoché uguali ovunque: «Arrestato il capo di Cosa nostra». Un errore comprensibile all’estero, dove la fama di un criminale e la sua capacità di sfuggire alla giustizia per così tanto tempo può facilmente coincidere con il suo status. Ma un errore drammatico se a commetterlo sono giornalisti e commentatori italiani e, tanto peggio, siciliani. Non solo – o non tanto – per l’immeritata promozione al boss di Castelvetrano, ma per l’inadeguatezza mostrata nel pensare e raccontare il fenomeno mafioso di oggi. Non più strettamente verticistico, certamente meno romantico nelle regole e alle prese con problemi nuovi dovuti proprio alla disgregazione del modello classico basato su una rigida organizzazione e una scarsa concorrenza interna.

Un modello di cui Messina Denaro incarnava semmai l’ultima testimonianza, conclusa con la sua morte a settembre. Ma anche, simbolicamente, dalla scarcerazione, dopo 26 anni, dell’ex uomo d’onore palermitano, poi collaboratore di giustizia, Gaspare Spatuzza. Tutti scossoni alla vecchia narrazione sulla mafia che non solo ci allontana dalla realtà, ma genera pure mostri tragicomici: come la finta cugina di Paolo Borsellino nel Siracusano, una rispettabile nonnina senza una goccia di sangue in comune con il magistrato ucciso da Cosa nostra, ma a cui è bastata un’omonimia per ricevere e organizzare premi e riconoscimenti. Se insomma, nel 2023, per pensare e raccontare la mafia abbiamo avuto bisogno di romanzare personaggi da fiction, nel 2024 lo sforzo dovrebbe essere quello di guardare in faccia Cosa nostra per quella che è oggi: un sistema in scala di grigi. Contro cui la memoria, per di più labile, non basta.

Meccanismi simili – e ugualmente fallimentari – a quelli che scattano quando si parla di femminicidi. Argomento ancora oscuro per molti, a partire dalla definizione, ma di cui stupisce soprattutto la genuina sottostima dei siciliani. I quali per lo più non immaginano che l’Isola sia la regione italiana con il più alto numero di casi – 12 nel 2023 -, al pari della Lombardia. Che pure ha il doppio degli abitanti della Sicilia. Regione, la nostra, che rimane in testa – sempre ragionando sui freddi numeri – anche se paragonata a Lazio e Campania, con quasi un milione di cittadini in più ma nove vittime ciascuno lo scorso anno. Che sia effetto dell’assuefazione mediatica o dell’incapacità di ricondurre alcuni meccanismi relazionali alla matrice patriarcale, la sostanza non cambia: in Sicilia si uccidono più donne che altrove, ma i siciliani restano convinti di avere un codice d’onore che non esiste (e, se esistesse, sarebbe parte del problema). Se quindi, nel 2023, abbiamo registrato uno scatto di consapevolezza, anche maschile, sul tema, dovuto in gran parte al femminicidio di Giulia Cecchettin in Veneto, nel 2024 sarebbe forse il caso di guardare in casa nostra: in famiglia, tra gli amici, sul lavoro, nelle nostre relazioni sempre più digitali. Per capire dove e come, anche senza armi, ci stiamo facendo del male.


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