La canzone della tiktoker Lidia Arena per il padre boss al 41bis: «La mafia fa schifo, è una strada che non spunta»

Un regalo speciale per la festa del papà. Si intitola Na cundanna ed è la nuova canzone che la tiktoker catanese Lidia Arena dedica a suo padre: il boss ergastolano Giovani Arena. Le condanne per i componenti di una delle famiglie mafiose che hanno fatto la storia di Cosa nostra a Catania, a dire il vero, sono ben più di una. E da festeggiare infatti oggi c’è anche la fine della pena che lei stessa ha scontato con l’affidamento ai servizi sociali e la messa alla prova, dopo quattro mesi in carcere e otto agli arresti domiciliari scontati ormai anni fa.

«Auguri a te, che manchi terribilmente al cuore, ti amo papà». Una dichiarazione d’amore filiale accompagna la foto dell’uomo nel post in cui si annuncia l’uscita del brano con il testo in napoletano, realizzato con la collaborazione del noto cantante neomelodico etneo Gianni Vezzosi. «Una condanna nel cuore ancora per quanto la posso portare? […] Sei la vita papà […] Il padre più carnale al mondo». L’attesa della pubblicazione di Na cundanna viene fatta in diretta sul profilo social che condivide con il compagno Dario che ha già superato i 95mila follower. «Riesci a dire che la mafia fa schifo?», chiede un utente durante la diretta. «Certo: la mafia fa schifo. Perché non lo dovrei dire? – replica Arena -. Ho già detto che quella è una strada che non spunta, meglio andare a lavorare».

Della sua storia personale e familiare, la 38enne non ha mai fatto mistero sui social. Anzi, in affollatissime live su TikTok – compresa quella di oggi pomeriggio – ha spesso raccontato del suo passato, anche remoto: a partire dai 18 anni di latitanza domestica di suo padre – iniziata quando lei aveva solo sette anni e terminata con l’arresto nel 2011 – fino al suo arresto nel 2012, insieme alla sorella maggiore Agata (omonima della loro cugina cantante neomelodica poi diventata missionaria per Dio), per detenzione di armi e munizioni anche da guerra, ricettazione e detenzione di stupefacenti. Lidia Arena ha sempre sostenuto che quelle armi non fossero sue, ma del padre che le avrebbe riconosciute come proprie. «Io pure ho finito una condanna – recita un pezzo del brano della canzone uscita oggi alle 15 – sono stata per un anno dentro l’inferno. Certe volte sembra che io somigli a te e dico “Io sono tale e quale a te»”.

«La canzone che ho scritto per lui gliela vorrei cantare io – ha detto Lidia Arena durante una diretta – e lo farò con la mia voce, quando lo andrò a trovare. Spero che la mandino in una radio che passa lì». Lì è il carcere di massima sicurezza de L’Aquila, – lo stesso dove è stato anche Matteo Messina Denaro – dove Giovanni Arena è detenuto con una condanna all’ergastolo, in regime di 41bis. Sfuggito all’operazione antimafia Orsa maggiore contro la famiglia Santapaola nel dicembre del 1993, Giovanni Arena viene inserito a pieno titolo nell’elenco dei trenta latitanti più pericolosi d’Italia. Una lista in cui rimane, più o meno comodamente, per 18 anni rintanato in un nascondiglio che ha costruito in casa sua. Un appartamento in uno stabile del quartiere Librino, nei dintorni del palazzo di cemento, il fortino dello spaccio che sarebbe stato il centro di potere della famiglia Arena.

Ricercato per associazione mafiosa, detenzione di armi, traffico di droga e per l’omicidio di un esponente del clan rivale dei Ferreradi, Maurizio Romeo (detto Cavadduzzo), Arena viene arrestato quando in carcere ci sono già i suoi quattro figli maggiori: Maurizio, arrestato per omicidio nel 1999; Agatino, catturato lo stesso anno e condannato per associazione mafiosa; Antonino, arrestato dopo due anni di latitanza; Massimiliano, accusato di rapina a mano armata e del tentato omicidio di un metronotte in servizio davanti alla guardia medica di Librino e anche lui catturato mentre era nascosto in un’intercapedine dopo una breve latitanza e la moglie Loredana Agata Avitabile, considerata la zarina del palazzo di cemento. È solo questione di tempo e anche i figli minori Simone e Alessio sono finiti dietro le sbarre.


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