Tredici anni di carcere. È questa la richiesta di pena avanzata per il geometra 60enne Andrea Bonafede che aveva prestato la propria identità al boss Matteo Messina Denaro nel suo ultimo periodo di latitanza trascorso a Campobello di Mazara, nel Trapanese. Una richiesta arrivata dai pubblici ministeri Gianluca De Leo e Pierangelo Padova al giudice per l’udienza preliminare del tribunale di Palermo Rosario Di Gioia. Secondo quanto emerso nel corso delle indagini, Bonafede avrebbe «ceduto di fatto la propria vita» consentendo all’ormai ex primula rossa di Cosa nostra di continuare a vivere da latitante.
Il processo si svolge con il rito abbreviato e la richiesta tiene conto della riduzione prevista per il rito alternativo, un terzo della pena. In ultima analisi, per Bonafede la Direzione distrettuale antimafia di Palermo ha proposto 18 anni: l’imputato è accusato di associazione mafiosa non di favoreggiamento e procurata inosservanza di pena aggravati dall’agevolazione di Cosa nostra, come era stata la contestazione iniziale nei suoi confronti. La sentenza dovrebbe essere emessa nell’udienza già fissata tra due settimana, dopo quella prevista per le arringhe da parte degli avvocati difensori.
Nel corso della loro requisitoria, i pubblici ministeri hanno sottolineato il ruolo svolto da Andrea Bonafede almeno nell’ultimo periodo della latitanza di Messina Denaro – catturato il 16 gennaio nella clinica privata La Maddalena di Palermo e morto il 25 settembre nell’ospedale de L’Aquila – trascorsa non distante dal suo paese d’origine – Castelvetrano – dove vivono ancora alcuni dei suoi familiari. Ed era stato proprio nell’occasione del suo arresto che i carabinieri del Ros gli avevano trovato addosso un documento d’identità intestato a Bonafede ma con la foto di Messina Denaro. Stando a quanto ricostruito dagli inquirenti, il geometra avrebbe agevolato il capomafia anche fornendo cellulari e sim card intestati a propri parenti (la madre molto anziana, la suocera) e sostenendolo con strumenti di pagamento a lui intestati e nel percorso delle cure, anche con la complicità del medico Alfonso Tumbarello e di un altro Andrea Bonafede, cugino omonimo dell’imputato e operaio del Comune di Campobello di Mazara.
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