È morto Matteo Messina Denaro

È morto all’età di 61 anni Matteo Messina Denaro. Il boss di Cosa nostra, ultimo esponente dell’ala stragista della mafia di Totò Riina, da tempo aveva un tumore al colon e il morbo di Crohn. Il capomafia, originario di Castelvetrano (in provincia di Trapani) era stato catturato il 16 gennaio del 2023 dopo una latitanza cominciata nel 1993. Almeno gli ultimi anni della trentennale latitanza li ha trascorsi tra i diversi covi che sono stati trovati e perquisiti a Campobello di Mazara, nel Trapanese. Diabolik o ‘u siccu, come veniva appellato – lui che aveva una necessaria passione per i soprannomi – era stato individuato dagli uomini del Reparto operativo speciale dei carabinieri nella clinica La Maddalena, a Palermo. «Mi avete preso per la malattia, non mi pentirò mai», aveva dichiarato Messina Denaro senza esitazioni durante uno degli interrogatori.

Negli ultimi tempi, le condizioni di salute dell’ormai ex primula rossa di Cosa nostra erano peggiorate giorno dopo giorno. Tanto che dal carcere di massima sicurezza, dove era detenuto in regime di 41 bis, era stato trasferito nella cella dell’ospedale San Salvatore de L’Aquila. Nel nosocomio, Messina Denaro era stato portato una prima volta a giugno per per cure di natura urologica non collegate al tumore; due mesi dopo ci era tornato per un intervento chirurgico dovuto a una occlusione intestinale. Poi, interrotte le cure per il cancro, il boss era stato sottoposto alla sola terapia del dolore e con la nutrizione parentelare. Date le gravi condizioni di salute degli ultimi tempi, era stato escluso il suo ritorno in carcere e ai familiari più stretti erano state concesse le visite in ospedale. Sorvegliato a vista da decine di agenti delle forze dell’ordine, la più assidua frequentatrice del suo capezzale è stata la nipote avvocata Lorenza Guttadauro (la figlia di Rosalia, detta Rosetta, la sorella di Messina Denaro che è stata arrestata per favoreggiamento). Nella struttura sanitaria anche Lorenza, la figlia riconosciuta recentemente dal boss che, dopo 27 anni passati con il cognome della madre – Alagna – ha deciso di prendere quello del padre, Messina Denaro.

Con il passare degli anni, la rete di fiancheggiatori che ha garantito la latitanza del boss si è via via assottigliata. L’ultima roccaforte è stata quella di Campobello di Mazara, piccolo Comune da poco più di 11mila abitanti in provincia di Trapani, tra Castelvetrano e Mazara del Vallo. In questo territorio Messina Denaro avrebbe potuto contare sul fondamentale supporto di Andrea Bonafede. Il geometra, classe 1964, che nei mesi scorsi è finito in carcere con l’accusa di associazione mafiosa. Per almeno due anni, infatti, sarebbe stato lui a fornire a Messina Denaro una identità falsa, un covo e mezzi per sposarti in piena autonomia. Alle cure mediche del boss, durante la latitanza, avrebbe invece provveduto Alfonso Tumbarello. Il camice bianco che ora è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Grazie al camice bianco, Messina Denaro avrebbe avuto la garanzia di ottenere le prestazioni sanitarie necessarie ma anche l’assoluta riservatezza sulla propria identità, celata sotto il nome di Bonafede. Negli ultimi due anni, Messina Denaro avrebbe ottenuto così 95 prescrizioni di farmaci 42 prescrizioni di costosi esami e analisi. Riuscendo anche, sotto la schermatura dell’alias a essere sottoposto a due interventi chirurgici. Tra gli spalleggiatori più fidati ci sarebbero stati anche i coniugi Emanuele Bonafede e Lorena Lanceri.

Dal giorno del suo arresto a quello della sua morte, Messina Denaro è stato interrogato due volte ma senza mai decidere di collaborare con la giustizia. «Io non mi farò mai pentito – aveva detto con convinzione – Non ho più niente da perdere nella vita, anche perché sto perdendo la vita stessa. Però, desidero che mi rimangano i miei principi, giusti o sbagliati che siano». Un primo interrogatorio, quello in cui si era definito un «agricoltore apolide», lo aveva preso «con un po’ di umorismo» rispondendo con un tono irriverente alle domande del gip e dei pubblici ministeri. Un primo colloquio in cui è stato affrontato il tema di un procedimento penale in cui il capomafia era accusato di estorsione aggravata, per un terreno acquistato dal padre quaranta anni fa con un prestanome. «Per me, nella mia mente, nel mio modo di ragionare, non è finalità mafiosa. È una modalità privata. Io – aveva detto il boss – non faccio parte di nessuna associazione e quello che so di Cosa nostra lo so tramite i giornali». Salvo poi contraddirsi poco più avanti, nel discorso, quando per giustificare un suo comportamento aveva affermato: «Ma non perché io sono più mafioso di altri».

In un secondo interrogatorio – l’ultimo – poi Messina Denaro si era lasciato andare a proverbi ebraici e siciliani, a citazioni auliche e a figure retoriche. Ma alle domande cruciali non ha risposto mai. «Dentro la mia testa ho un mio codice comportamentale. Mi definisco un criminale onesto». Un ossimoro, usato dal boss con consapevolezza, per negare la sua appartenenza a un’organizzazione mafiosa e il suo coinvolgimento in stragi e omicidi. Una «vita da caverna», come lui stesso l’ha descritta, gli avrebbe garantito la lunga latitanza. Poi la scoperta della malattia (il 3 novembre del 2020) che ha portato con sé la necessità della tecnologia per potersi curare. «Ho abbassato di molto le mie difese», aveva spiegato Messina Denaro che si era anche fatto fotografare con sigaro e liquore a casa dei suoi vivandieri e si era concesso perfino per un selfie con un medico. «Ho seguito un adagio, un proverbio ebraico: “Se vuoi nascondere un albero, piantalo nella foresta“». Così aveva cominciato ad avere una vita sociale, anche piuttosto attiva.


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