Uccise la figlia di cinque anni, per i difensori: «Voleva liberare la bimba dalla sofferenza»

Martina Patti «colpevole» si era dichiarata da sola, durante il processo. La 25enne è stata condannata a trent’anni di carcere per l’infanticidio di sua figlia Elena Del Pozzo. Alla sentenza di condanna da parte della Corte di Assise di Catania – di cui sono state pubblicate anche le motivazioni – hanno fatto appello i suoi avvocati difensori. La prima udienza del processo di secondo grado è già stata fissata per lunedì 14 aprile. I legali che assistono la donna reaconfessa, Tommaso Tamburino e Gabriele Celesti, chiedono che venga assolta per tutti e tre i reati per cui è imputata: l’omicidio aggravato della figlia di cinque anni, l’occultamento del cadavere nel terreno di Mascalucia e la simulazione di reato, per avere finto il rapimento della bambina da parte di un commando armato.

I motivi dell’appello

Non c’è dubbio dunque che sia stata Martina Patti a fare tutto, come lei stessa ha confessato. I suoi avvocati, però, chiedono «la disamina dei controversi aspetti psicologici» per accertare se fosse «consapevole del significato delle proprie azioni» oppure «per infermità, in uno stato di mente tale da escludere o scemare grandemente la sua capacità di intendere e di volere». Era stata la procura, nel corso del processo, a chiedere una nuova perizia sulla donna. Richiesta rigettata dalla Corte che, per arrivare alla conclusione, ha ritenuto sufficienti le due consulenze già depositate: quella del perito incaricato dalla procura, lo psicologo Roberto Cafiso, e quella dello psichiatra Antonino Petralia, consulente della difesa.

«Infanticidio altruistico» o «disturbo istrionico»?

«Una personalità immatura con disturbo narcisistico e istrionico, con scarsa capacità all’introspezione e una tendenza all’impulsività e a eruzioni emotive». Sono le parole con cui Cafiso descrive l’imputata che ha incontrato solo due volte in carcere: la prima per un colloquio e poi per il test di Rorschach (dieci tavole grafiche con cui si analizza la personalità). A parlare di «infanticidio altruistico» è stato invece Petralia che di incontri con Martina Patti ne ha avuti trenta, dal giugno del 2022 al febbraio 2024. Da colloqui, testi scritti e test psicodiagnostici, lo psichiatra ha desunto che la donna «ha una struttura della personalità di tipo borderline con marcate note depressive, convinzioni poco realistiche e criteri morali particolarmente rigidi». Da questa analisi, inoltre, la 25enne è risultata affetta da uno «sviluppo abnorme di personalità. Ciò – si legge nella relazione del consulente della difesa – ha fatto piombare Patti in una atmosfera delirante da cui non riesce a vedere altra via d’uscita che procedere al figlicidio di Elena per liberarla dalla sofferenza e poi completare tutto con il proprio suicidio».

La «bolla dissociativa»

«Sei anni di sofferenza tutta racchiusa dentro di me per non fare soffrire Elena e i miei genitori». È così che, a colloquio con Petralia, Martina Patti ha descritto l’ultimo periodo della propria vita. Ed è anche sulla base di questo che lo psichiatra ha spiegato che, nel momento in cui «progettava e attuava il disegno di omicidio/suicidio sarebbe entrata in una bolla dissociativa, ovvero in una condizione di distacco emotivo e cognitivo dalla realtà da cui sarebbe poi uscita in modo drammatico vedendo le proprie mani insanguinate». Di conseguenza, a questo punto, con l’interruzione della dissociazione, sarebbe emersa la consapevolezza delle azioni compiute e il progetto si sarebbe interrotto a metà, senza arrivare al suicidio. Del resto, anche il consulente del pubblico ministero ha parlato di una «esplosione emotiva» come movente dell’omicidio. Proprio allo psicologo, infatti, all’indomani dell’omicidio, Patti piangendo aveva parlato di «un demone che, a un certo punto, si sarebbe impossessato di lei facendole fare ciò che mai avrebbe voluto fare e conferendole una forza fisica che non aveva mai provato».

La «pianificazione automatica»

Compiuto l’infanticidio, per la difesa, sarebbero subentrate nella madre «la negazione e la proiezione che si sono manifestate come difese per allontanare il peso emotivo». Così, in uno stato compatibile con un «disturbo post traumatico da stress», avrebbe occultato il cadavere e l’arma e si sarebbe lavata e cambiata. «È evidente – scrivono gli avvocati difensori nell’appello alla sentenza di condanna – che Patti, nei giorni immediatamente successivi, non fosse in grado di aprirsi e di confessare i propri intenti suicidiari». Riuscirà a farlo, dopo un percorso complesso con lo psichiatra, per rispondere alla domanda sulla ricerca fatta su internet sul detersivo da usare come veleno. Infine, i legali non condividono il ragionamento della Corte d’Assise secondo cui la donna sarebbe stata «perfettamente lucida e consapevole». Stando a quanto emerso dalla consulenza, infatti, «i soggetti dissociativi possono intraprendere azioni che sembrano pianificate ma che, in realtà, sono risposte automatiche alla percezione alterata. Per questo – concludono – si parla di “pianificazione automatica“».


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