Ispica, 33 migranti arrivati in barca a vela C’è anche un siriano sulla sedia a rotelle

Un viaggio dalla Siria fino a Ispica sulla sedia a rotelle. Per cercare pace e libertà che nel suo Paese non può più trovare. Tra i 33 sbarcati oggi in barca a vela, c’è anche un uomo disabile, accompagnato da un cugino. Insieme a loro pure nove donne e cinque bambini. Sono stati soccorsi nella notte, intorno alle tre e mezza, a Porto Ulisse, spiaggia antistante Ispica, in provincia di Ragusa. Il gruppo è riuscito ad arrivare a 50 metri dalla costa, senza essere intercettato in mare.

I migranti avrebbero raccontato che gli scafisti sarebbero riusciti a scappare sulla terraferma prima dell’arrivo dei soccorsi e che parlavano con un accento dell’Est, probabilmente erano russi o ucraini. Sono stati trasferiti su una motovedetta della Capitaneria di porto – con non poche difficoltà per le pessime condizioni meteo con mare forza 6 da nordovest e i forti venti di maestrale con raffiche da 15 a 30 nodi – e poi portati all’hotspot di Pozzallo per l’identificazione, dove avrebbero raccontato ai mediatori culturali di aver pagato circa tremila dollari ciascuno per il viaggio. Tra le nazionalità di provenienza accertate ci sono Sri Lanka, Afghanistan, Siria, Iraq e diversi curdi. «È la prima volta che abbiamo persone originarie dello Sri Lanka nel centro», sottolinea Angelo Zaccaria, direttore dell’hospot. 

Non è invece la prima volta di sbarchi direttamente a terra con mezzi considerati anomali. Ad aprile un gruppo di 27 somali è arrivato fino a Portopalo, sempre a bordo di una barca a vela guidata da due uomini ucraini, che sono stati fermati perché ritenuti gli scafisti. Negli stessi giorni un piccolo gommone si è spinto finto allo specchio d’acqua di fronte Vendicari. In quel caso i 33 a bordo erano soprattutto iracheni e afgani. E ancora, nel giugno del 2015, la guardia costiera aveva soccorso un veliero che portava migranti siriani e afghani, anche in quel caso guidato da scafisti di origine ucraina. 

Intanto Medici senza frontiere lancia l’allarme su un disagio sottovalutato: quello mentale legato all’esperienza migratoria. «Un fenomeno sempre più preoccupante», sottolinea la ong che pubblica oggi il rapporto Traumi ignorati, nato dai dati raccolti, tra luglio 2015 e febbraio 2016, nei centri di accoglienza straordinaria di Roma, Trapani, Ragusa e Milano. Dal report emerge che il 60 per cento dei soggetti intervistati nell’ambito delle attività di supporto psicologico di Msf presentava sintomi di disagio mentale connesso a eventi traumatici subiti prima o durante il percorso migratorio. In particolare, tra i 199 pazienti direttamente presi in carico nei centri di Ragusa, il 42 per cento presentava disturbi compatibili con il disordine da stress post traumatico (PTSD), seguito dal 27 per cento affetto da disturbi dovuti all’ansia. Le probabilità di avere disagi psicopatologici è risultata di 3,7 volte superiore tra gli individui che avevano subito eventi traumatici.

Problemi che non vengono curati una volta arrivati in Italia e che, anzi, si accentuano. «I richiedenti asilo – sottolinea Silvia Mancini, esperta di salute pubblica per Msf e curatrice del rapporto – si ritrovano a stare per periodi molto lunghi in strutture che sono spesso in zone particolarmente isolate, dove rimangono a lungo, a causa dei tempi legati all’attesa dell’esito della procedura di asilo. Questa condizione genera profondo stress e sofferenza, che si somma all’esilio in una terra sconosciuta e alla mancanza di prospettive». Il rapporto mostra poi come tra i fenomeni aggravanti del disagio mentale, ci siano «le condizioni di particolare precarietà vissuta all’interno di strutture di accoglienza». L’87 per cento dei pazienti ha infatti dichiarato di soffrire delle difficoltà di vita nei centri. I Cas, continua Msf, «con il tempo sono diventati parte integrante del sistema ordinario di accoglienza, cristallizzando in questo modo un approccio emergenziale, poco orientato a favorire progetti di lungo termine e di inclusione nei territori». E i servizi sanitari «mancano di competenze e risorse necessarie e tardano a riconoscere i segni del disagio tra queste persone». Da qui l’appello per «un modello di accoglienza che prenda in carico i bisogni specifici legati alla salute mentale per questa popolazione particolarmente vulnerabile».


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