Poliziotto della Stradale si toglie la vita in caserma La lettera: «Lasciato da solo, subivo umiliazioni»

Girava le scuole della provincia di Catania per raccomandare ai ragazzi di fare attenzione alla guida. Ma è stato proprio lui a porre fine alla sua stessa vita venerdì, all’interno di un locale in disuso della sede del compartimento dove lavorava. D. D., sposato, due figli, era un ispettore capo della polizia stradale di Catania. Si è tolto la vita con l’arma d’ordinanza nell’alloggio del dirigente, un locale in disuso all’interno della caserma di via Antonio Caruso, a Ognina. Prima del gesto, il poliziotto ha lasciato una lunga lettera in cui riporta i dettagli dei suoi ultimi anni di servizio, trascorsi tra disorganizzazione e presunte umiliazioni subite dai dirigenti. Chi lo conosceva racconta anche di problemi familiari, sfociati in una lite la sera prima che l’agente decidesse di farla finita e forse alla base della sua decisione. Ma tra i colleghi c’è anche chi conferma: «Che alla stradale si stia malissimo lo sanno tutti». Secondo le statistiche note, quello etneo è il 17esimo caso di suicidio tra le forze dell’ordine – il sesto in polizia – da inizio anno in Italia. Seguito poche ore dopo dalla tragica scelta di una collega della Questura di Bergamo.

Le sue ragioni il poliziotto ha scelto di affidarle alla lettera. Un foglio da stampante scritto di suo pugno, in stampatello, con una calligrafia fitta e poche cancellature. È lo stesso agente a raccontare come l’ufficio tecnico logistico non esistesse fino a qualche anno fa, prima che gli venisse affidato. «Non esistevano registri, linee guide da seguire», scrive l’ispettore capo. Gestire quel settore – prima all’interno del più generico ufficio servizi – veniva considerato «una rogna». «Quando venni incaricato di occuparmene mi resi conto delle difficoltà: ero da solo – continua – E, da solo, mi collocarono in un posto di fortuna, nell’ultima stanza dopo l’archivio». «”La grotta” venne chiamata». Dove l’agente della Stradale vedeva emarginazione, i superiori di allora «pare si divertissero», racconta. L’unico collega chiamato ad affiancarlo «collaborò solo i primi giorni, dopo inventava scuse». Fino a quando non viene trasferito anche lui. Senza avvertire. «Considerazione, rispetto zero», sottolinea il poliziotto. «Con gli anni le pratiche si accumularono e le procedure diventarono sempre più complicate. Io, sempre da solo».

Poi si assiste a un cambio al vertice. «Subito divento il suo obiettivo», scrive l’ispettore capo. Che racconta dei tentativi di spiegare i problemi, le difficoltà del lavoro di ogni giorno, frasi ripetute più volte. Ma, spiega, rimaste sempre inascoltate. E non solo. «Ogni giorno, un’umiliazione: “Non è presente a se stesso”, una delle tante». Poi scatta l’accorpamento dell’ufficio tecnico logistico con quello automezzi, «facendomi regredire da capoufficio (di me stesso, ma sulla carta, almeno, una gratificazione) ad addetto». Nella lettera, l’agente non fa cenno ai problemi familiari e adesso, sulle motivazioni della sua scelta, indaga la procura di Catania a cui la squadra mobile etnea ha consegnato un fascicolo. La fine del suo ultimo messaggio, D. la dedica ad alcuni colleghi, le «poche persone che mi sono state veramente vicine», scrive. Primo tra tutti, il poliziotto G. F., «l’unico che ha saputo capire il mio carattere introverso».


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