«Noi questa università non la vogliamo»

Prosegue la contestazione dei precari della ricerca e dei docenti a contratto catanesi contro i tagli previsti dalla riforma universitaria. Dopo la protesta dei gilet ad alta visibilità indetta dai contrattisti della facoltà di Lingue e Letterature Straniere, i coordinamenti dei Precari della Ricerca e dell’Università Flc-Cgil di Catania hanno indetto un incontro dal titolo «Appesi a un filo, sostenuti da un’idea: un’altra università è possibile», in occasione della giornata di mobilitazione nazionale concordata durante la manifestazione de La Sapienza del 20 novembre scorso.

Durante l’assemblea ricercatori precari, studenti e docenti universitari, insegnanti precari e tutti i lavoratori dell’università discuteranno di tagli alle risorse per scuola e università e del Ddl Gelmini. Verranno inoltre illustrate le prossime iniziative del movimento, come lo sciopero generale dei lavoratori della conoscenza e un’altra manifestazione nazionale a Roma, prevista per l’11 dicembre.

Ospite dell’incontro, che si terrà stamattina alle ore 10 nell’auditorium del Monastero dei Benedettini, sarà Claudio Franchi, coordinatore nazionale Precari dell’Università Flc-Cgil e docente a contratto di Filologia Romanza all’Università L’Orientale di Napoli. In un’intervista per Step1 spiega le motivazioni e gli obbiettivi della contestazione, ma anche le difficoltà e l’amarezza di vivere in prima persona la condizione di lavoratore precario.

Prof. Franchi, oltre ad essere il Coordinatore Nazionale dei Precari dell’Università Flc-Cgil, è stato membro attivo della Rete Nazionale dei Ricercatori Precari. Adesso il precariato italiano della conoscenza si sta muovendo contemporaneamente su due fronti: i coordinamenti auto-organizzati nei singoli Atenei e il sindacato di cui lei fa parte. Sulla base della sua esperienza, quali sono le motivazioni e le aspettative politiche?
«Far nascere e crescere la lotta in tutte le città d’Italia è stata una scommessa. Una battaglia fuori dai partiti e dalle organizzazioni per un verso godeva di una grande libertà, ma dall’altra parte non riusciva ad avere una continuità, una memoria storica, una prospettiva istituzionale. Allora è sembrato naturale cercare di darle uno sbocco attraverso il sindacato e questa scommessa, con tanta fatica, sta iniziando a dare i primi frutti: adesso in Italia ci sono decine di nuclei del coordinamento, totalmente interni alla Flc-Cgil che raggruppa tutti i più importanti Atenei italiani, tra cui Catania che è uno dei centri più forti del meridione».

Lei è anche docente a contratto di Filologia Romanza all’Orientale di Napoli. Come vive questa situazione a livello personale? Che cosa significa per lei l’impegno all’interno del sindacato?
«Personalmente la vivo malissimo. Quello che faccio ha un senso politico, ma anche uno personale. Ho scelto di lavorare all’università perché quella realtà mi dava qualcosa in più. Probabilmente la precarietà mi ha privato di questo entusiasmo. Continuo a lavorare ma non riesco più a trovare quella trascendenza che cercavo prima. Paradossalmente la sensazione che cercavo nell’università l’ho trovata con la militanza nel sindacato, cercando di fare qualcosa anche per gli altri».

Quindi non basta soltanto la passione quando si è in una condizione di precarietà. Che cosa vuol dire oggi fare parte del sindacato per un lavoratore precario dell’università e della ricerca?

«Non è facile perché significa combattere all’interno del sindacato che non sempre ti riconosce, e combattere anche fuori pagando a volte colpe soltanto perché ne fai parte. Però per i precari che al momento hanno bisogno più degli altri della tutela lavorativa, il sindacato è l’unica risposta possibile».

Com’è il rapporto tra il Coordinamento Nazionale Precari dell’Università e il movimento studentesco, in particolare con l’Onda?
«Durante la mobilitazione contro le riforma Moratti il fronte impegnato nella contestazione aveva visto i precari poco presenti. Questa volta però abbiamo scelto di schierarci nettamente a favore del movimento studentesco, in particolare con l’Onda, scelta per cui inizialmente il sindacato non ha avuto pareri favorevoli. La stessa assemblea di Roma del 20 dicembre scorso, partecipatissima con gente da tutta Italia, è stata voluta in sinergia da entrambi i movimenti».

Perché avete deciso di appoggiare a pieno gli studenti?
«È importante sottolineare che se noi ci troviamo in una situazione critica, gli studenti pagheranno un prezzo molto più alto. Se il Ddl Gelmini dovesse diventare legge i tagli non colpiranno solo i precari, ma anche tutti gli studenti, stravolgendo la didattica e azzerando la ricerca. Oltre al fatto che i giovani laureati non avrebbero nessuna possibilità di trovare lavoro nel mondo dell’università e della ricerca».

Qual è ad oggi l’agenda del coordinamento nazionale, in vista dell’imminente conversione in legge del Ddl Gelmini?
«Il primo punto è lo sciopero nazionale dell’11 dicembre indetto dalla Flc-Cgil, che dovrebbe portare, attraverso il coinvolgimento di tutte le reti studentesche e di tutti i precari d’Italia, ad una grande mobilitazione che avrà luogo in primavera per bloccare il disegno di legge. E questo sarà solo l’inizio. Noi questa università, così com’è adesso, non la vogliamo. Ci immaginiamo un’altro sistema, diverso da quello attuale. La situazione deve cambiare».

Quali sono le tematiche “ereditate” dalla mobilitazione di studenti e precari dell’autunno 2008?
«Il finanziamento in primis. L’università e la conoscenza sono il nodo strategico del Paese e devono essere largamente finanziate. Non possiamo basarci sul primario e sul secondario, abbiamo bisogno di diffondere democraticamente la cultura. La popolazione studentesca deve avere la possibilità di studiare, di essere collegata al mercato e alla società. La conoscenza è un bene collettivo e deve rimanere tale».

Parliamo invece delle novità. Che cosa è emerso dall’Assemblea generale del 20 novembre alla Sapienza di Roma?
«Per la prima volta è emersa una volontà determinata da parte di tutti i soggetti coinvolti di arrivare fino alla fine. Qualcuno ha detto che sembrava di sentire sempre lo stesso intervento pronunciato in vari dialetti. Potrebbe sembrare un’attacco, invece è indicativo del fatto che tutti ci trovavamo d’accordo e sapevamo bene che cosa dire».

Perché, secondo lei, è utile ripartire dai singoli atenei, dal territorio, per rilanciare la mobilitazione nazionale?
«Innanzitutto perchè da molti anni, anche se gestita male, l’università si basa sull’individualità per cui ogni singolo Ateneo ha l’autonomia legislativa di poter fare le proprie scelte. Poi perchè nessuno meglio di chi sta sul territorio conosce bene i propri problemi e bisogni e può proporre uno sfruttamento corretto delle risorse a disposizione, insieme ad un sistema della conoscenza ben preciso. Come ha detto qualcuno, è necessario avere la testa a Roma, ma le gambe in ogni città».

In particolare, cosa si aspetta dall’incontro di Catania del 2 dicembre?
«L’assemblea di Catania si pone quasi come un’assemblea regionale. Mi aspetto che sia una miccia per tutte le altre università. Mi auguro che quello che Catania è riuscita a fare nella propria città e nel proprio Ateneo possa diffondersi almeno in tutta la Sicilia».

Quali aspettative nutre nei confronti del coordinamento catanese? Cosa può fare Catania in particolare?
«L’affermazione di esistenza del movimento è già un passo importantissimo. Nel momento in cui i precari di Catania ricordano la propria esistenza l’istituzione accademica non può più non tenerne conto. Questo è un primo scalino. Poi i precari catanesi, insieme a tutti quelli delle altre città saranno in grado di fermare la riforma».

Secondo lei la questione scuola-università è un’emergenza sociale? Perché?
«Assolutamente. Dal ministero Berlinguer in poi si è pensato all’università in termini di diffusione. Lo stesso tre+due, seppur male applicato, in realtà partiva da un obbiettivo condivisibile, cioè l’allargamento e la diffusione della conoscenza. Le nuove riforme e l’indirizzo strategico preso dal governo prevedono invece, attraverso l’attuazione del numero chiuso, una risposta in termini di chiusura. I laureati saranno di nuovo pochi e di qualità come negli anni cinquanta e sessanta, a fronte però della fine di qualunque forma di mobilità sociale e di democrazia partecipativa. Non ci sarà più la diffusione della conoscenza, che rimarrà un privilegio di pochi. L’unica cosa da fare è opporsi e lottare per il ripristino della democrazia sociale».


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