«Siete delle merde? Uno sfogo verso tutti i giornalisti. Quel giorno ero un po’ nervoso», «Vi spacco la testa? Intendevo musicalmente». Ammissioni, giustificazioni e qualche «non ricordo», hanno caratterizzato l’ultima udienza del processo per diffamazione e minacce in cui sono imputati i cantanti neomelodici Filippo Zuccaro – noto come Andrea Zeta – e Vincenzo Niko Pandetta. Entrambi sono finiti alla sbarra per la reazione alla pubblicazione, da parte di questa testata, del reportage Catania canta come Napoli. Un video risalente al 3 gennaio 2018, consultabile nell’archivio online, in cui si raccontava il panorama della scena musicale neomelodica a Catania. Nel lavoro venivano citate le parentele dei due cantanti: Pandetta è nipote del capomafia Turi Cappello, a cui ha intitolato il brano Dedicato a te, mentre Zeta è figlio di Maurizio Zuccaro, boss dei Santapaola-Ercolano. Dopo la pubblicazione del video i due cantanti presero di mira la cronista Luisa Santangelo e la testata MeridioNews, nella persona della direttrice del quotidiano Claudia Campese. Insulti e minacce rimarcati con messaggi privati e durante una diretta Facebook.
In aula, dopo l’udienza dello scorso novembre in cui sono state sentite le parti offese, è toccato ai due imputati rispondere alle domande di avvocati, presidente e pm. Pantaloni Gucci, maglia Stone Island e occhiali da vista, Pandetta è stato portato in udienza da due agenti della polizia penitenziaria. Il cantante al momento sta infatti scontando una condanna definitiva per spaccio di droga. «Siete delle merde? L’ho detto, ma era uno sfogo di un’artista rivolto in generale a tutti i giornalisti», spiega ai legali delle giornaliste, Sergio Ziccone per Campese e Goffredo D’Antona per Santangelo. «Le mie non erano minacce, io intendevo in senso legale», continua Pandetta che però, come sottolineato dallo stesso imputato, non ha mai querelato MeridioNews. «Non ricordo di avere detto di volere “scippare la testa” – continua – Forse era una cosa detta in generale». «Loro hanno fatto un servizio senza essere autorizzati da me – conclude – E mi sono sentito offeso perché offesero la mia famiglia di sangue».
Subito dopo è toccato a Zeta. «Io non ho insultato – sostiene – Diciamo che l’ho presa un po’ male». Poche ore dopo la pubblicazione del reportage, il cantante aveva contattato il quotidiano attraverso messaggi: «Spero di non incontrarvi mai, tanto riconosco i vostri volti tramite Facebook» oltre all’invito ad aprire «un hot club, così le porcate le fate lì». «Vi sputerei in faccia? È un modo di dire, l’ho pensato e l’ho detto», spiega in aula, aggiungendo anche che la frase «Vi spacco la testa era da intendere in senso musicale». «L’hot club? Una cosa stupida, detta così. Poi io comunque mi sono scusato perché sono una persona intelligente», conclude. Rigettata, invece, la richiesta degli avvocati dei due cantanti – Salvo Centorbi per Zuccaro e Maria Chiaramonte per Pandetta – di sentire un secondo agente della polizia postale che ha condotto gli accertamenti sul carteggio online. Prima dei cantanti c’era già stata la testimonianza dell’assistente Raffaele Marco Caltabiano che si è occupato di redigere l’annotazione di servizio sui profili Facebook utilizzati per inviare messaggi alla redazione.
Alcuni momenti della giornata in aula di Pandetta sono finiti immortalati con video e foto (anche all’interno dell’aula) poi pubblicati sul suo profilo Instagram. Prima dell’udienza chi cura la pagina social aveva annunciato la presenza del cantante nel capoluogo etneo: «Domani mattina Niko si troverà presso il tribunale di Catania per un processo». Ad attenderlo c’erano la mamma, il fratello e un amico di vecchia data. A processo concluso, Pandetta è stato immortalato in una foto all’esterno dell’ex pretura di via Francesco Crispi, pubblicata in una storia con la scritta «Chi non commenta è complice dello Stato». In contemporanea, un video dall’alto – anche questo pubblicato su Instagram – fissa il momento dei saluti con la madre. Infine, un breve filmato in aula e la foto di Pandetta seduto a testimoniare, con una scritta a corredo: «Fate bene a temere una mia sovraesposizione mediatica – si legge – In natura vince il più forte, vi battiamo anche con le mani incatenate. Il tempo è galantuomo e mette tutto a posto e la guerra la vince chi sa aspettare».
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