Lorenzo Motta si scontra dal 2005 con le istituzioni perché venga riconosciuto che il suo linfoma di Hodgkin è dovuto alle missioni all’estero. Lo ignorano tutti, fino a un messaggio su Facebook da parte dell'esponente del governo e un appuntamento per domani
Militare vittima non riconosciuta di uranio impoverito Dopo 14 anni di attesa l’incontro con la ministra Trenta
«Ammalato per? Se posso…». È da poco passata l’una di notte quando Lorenzo Motta riceve questo messaggio. È l’uno giugno 2018, e una cosa del genere, lui, la aspetta da ben 14 anni. E quasi non riesce a credere ai suoi occhi. Quella che glielo sta domandando, rispondendo a un suo messaggio privato su Facebook, infatti non è un contatto qualunque sul più comune social network di oggi. A domandare, stavolta, è Elisabetta Trenta, attuale ministra della Difesa. «Avevo davvero bisogno di questo». Di considerazione, di un paio di ore per raccontare la sua storia, quella di un militare tornato dalle missioni all’estero con una patologia che lo taglia fuori dalla marina militare, il linfoma di Hodgkin. Un militare che combatte da 14 anni perché il suo tumore venga dichiarato dipendente dall’esposizione alle nanoparticelle di metalli pesanti. Un militare che dalla sua parte ha due gradi di giudizio favorevoli, quello di primo grado del Tar Lazio che gli dà ragione e quello del Consiglio di Stato, oltre a numerosi casi analoghi al suo già ampiamente riconosciuti.
«Ho contattato tutti i ministri che ci sono stati prima di lei negli ultimi anni – racconta Motta -, non mi ha mai risposto nessuno. La Russa, Pinotti, niente. Con quest’ultima si era anche speso il mio comandante a Palermo. Ma solo silenzio». Per lo Stato è come se lui non esistesse. A tal punto che nulla ad oggi attesta ufficialmente che la sua patologia dipenda da causa di servizio, cioè che affermi in sostanza che a Motta quel linfoma sia venuto a causa di ciò a cui quelle missioni militari all’estero lo hanno irrimediabilmente esposto. Non esiste un pezzo di carta che lo dichiari. Anzi. Il ministero della Difesa si rifiuta di uniformarsi ai due gradi di giudizio già espressi, motivo per cui Motta ha fatto ricorso per inottemperanza. I nuovi giudici che si trova di fronte, però, non si accontentano dei precedenti, delle storie simili, dei risultati già ottenuti e nominano un Ctu, cioè un consulente tecnico d’ufficio, un perito – che paga lo stesso Motta – che attesti l’eventuale nesso tra la patologia e le nanoparticelle, se esiste. Ricercando, per questo, i dettagli delle altre storie, fra centinaia e centinaia di casi, di esempi. Un Ctu che però da tempo non dà sue notizie. Mentre la giudice che a Palermo deve decidere se riconoscergli lo status di vittima del dovere o meno continua a rinviare le udienze senza concludere nulla.
«Ingiustizie», le ha sempre definite lui. Che intanto hanno fatto scivolare via così 14 anni della sua vita. Tra una malattia che incalza senza concedere sconti e una stanchezza addosso che si fa sempre più pesante. Adesso sembra finalmente essere a un passo dalla svolta. «Sono elettrico, non so come altro definire le sensazioni che sento – racconta -. Non vedo l’ora che sia mezzogiorno del 6 marzo per trovarmi in XX settembre e giocarmi probabilmente l’unica chance che potrò avere». Sì, perché dopo quell’inaspettato messaggio privato su Facebook della ministra Trenta, a cui Motta risponde elencando le quanto fronteggiato negli anni, ne seguono degli altri che portano a concordare un incontro a Roma per domani. «Se mi manda il suo numero, la faccio contattare per incontrarla», è infatti la risposta che riceve dall’esponente del governo. È vero, arriva solo il 12 febbraio, praticamente tre settimane fa, però arriva. Grazie, forse, anche alla tenacia di Motta. «Già mesi fa avevo preparato una relazione di gruppo che racchiudeva insieme al mio caso quello di altri venti ragazzi combinati come me, ponendomi come rappresentante di questa delegazione che chiedeva solo di essere ascoltata – spiega lui -. Sono passati i mesi e, come già in passato, non ho avuto alcuna risposta. Ma dall’ufficio del gabinetto della ministra mi fanno sapere che comunque a lei storie così stanno davvero a cuore e che col tempo avrebbero fatto qualcosa».
Lì per lì al militare sembra il solito escamotage delle istituzioni per chiamarsi fuori e non affrontare realmente la questione, come se la malattia e gli oltre venti metalli diversi che gli scorrono nel sangue non fossero mai esistiti. Ma deve ricredersi. «Non mi sono voluto accontentare di quella risposta. E siccome so come vanno le cose, visto l’esperienza di questi anni, ho deciso di riformulare una nuova relazione, questa volta raccontando però solo la mia di storia». Riprova di nuovo e quelle sei pagine che butta giù di getto arrivano dritte all’obiettivo. A scrivergli è la ministra in persona, che per contattarlo sceglie un canale diretto e veloce. Lo stesso che mesi prima aveva sfruttato per conoscere alcuni dettagli della sua malattia. «Una decina di giorni dopo che lei mi aveva chiesto il numero, sono stato effettivamente contattato per decidere la data dell’incontro». È il 6 marzo, dunque, lo stesso giorno in cui il suo avvocato, Pietro Gambino, parlerà per lui di fronte agli avvocati del Tar Lazio.
«Lei a inizio mandato lo aveva detto che avrebbe voluto sentire singolarmente tutti quanti, me e tutti gli altri nelle mie stesse condizioni. E sta accadendo davvero, anche se fino ad oggi non ha mai fronteggiato casi come il mio, in cui ho praticamente finito tutto, a livello di giurisprudenza, non ho nulla da attendere, ormai è tutto un palliativo – spiega -. Io non ho più le forze, ho vinto tutto, perché continuare questo astio?». L’incontro di domani però lo riempie di adrenalina. «Sentendo la mia storia e di fronte a tutti i documenti che ho intenzione di mostrarle, non potrà non fare niente. Sono fiducioso – ribadisce, pieno di gioia -. Nessuno si era mai interessato in questo modo alla mia storia, qualcosa dovrà pur voler dire».