Mafia catanese d’esportazione tra Ungheria e Slovacchia La ricerca dei kalashnikov e il progetto di stampare soldi

«L’importante è che mi dai una mano in Ungheria, perché so che tu parli perfettamente l’ungherese». L’atmosfera di Budapest e i bei palazzi del periodo gotico che si affacciano sul Danubio avrebbero attirato gli investimenti di Sergio Gandolfo. Nel 2012 condannato in via definitiva per mafia e a ottobre 2015 finito tra gli indagati dell’inchiesta Nuova famiglia con l’accusa di essere il reggente del clan Mazzei. L’anno prima, Gandolfo viene arrestato a Sekule, una piccola cittadina a 64 chilometri dalla capitale della Slovacchia, Bratislava. I poliziotti lo fermano, insieme ad altre persone, tra le quali il catanese Salvatore Giampiccolo, per avere tentato di stampare soldi falsi nella vicina Repubblica Ceca. Davanti ai giudici il 55enne respinge le accuse – ma rimedierà comunque una condanna a due anni e mezzo – e racconta di essere finito in Slovacchia dopo essere stato a Budapest, in Ungheria. Sempre per affari.

Nel Paese magiaro Gandolfo vanterebbe contatti con alcuni imprenditori del settore immobiliare. Ma i suoi interessi a quanto pare si sarebbero allargati anche all’importazione di armi e al settore delle automobili di lusso. Una frenesia commerciale finita, almeno in parte, nelle carte dell’operazione Camaleonte sugli imprenditori Luca di Gela. Il cui impero economico, legato soprattutto alla concessionaria Lucauto, sarebbe stato creato, secondo i magistrati di Caltanissetta, all’ombra del clan Rinzivillo. Gandolfo in questa inchiesta non è indagato ma il suo nome viene citato svariate volte per i presunti rapporti con la famiglia Luca.

Gli inquirenti ricostruiscono il profilo del presunto reggente dei Mazzei soprattutto grazie alle rivelazioni di Enrico Francesco Fiore. Imprenditore con base a Valverde, in provincia di Catania, Fiore è specializzato nella compravendita di auto. Nel 2013, stando alla sua stessa ricostruzione, finisce nel tritacarne dei debiti con alcuni esponenti della criminalità etnea. L’uomo, si legge nella carte dell’inchiesta in cui non è indagato, entra in contatto con Gandolfo grazie «all’ex ispettore della Squadra mobile di Catania Armando Corallo», anche lui non indagato. In cambio di 20mila euro Gandolfo avrebbe chiesto a Fiore di «collaborare per gli affari in Ungheria». «Lui voleva trattare solo con una persona – racconta Fiore – e trattare armi da potere portare in Italia». Così a dicembre 2013, mentre si trova a Catania, a casa di Gandolfo, Fiore avrebbe preso in mano un telefono Blackberry per fare una chiamata internazionale. A squillare è il telefono di Nusuf Nunajev, fratello di un ristoratore di Budapest. «In quella telefonata – scrivono gli inquirenti – Gandolfo richiedeva 33 pezzi che Fiore sapeva essere kalashnikov».

Il misterioso Nunajev è una delle figure che avrebbe beneficiato, seppure indirettamente, della disponibilità dei Luca a cedere auto a uomini della criminalità organizzata. Nello specifico, grazie a Gandolfo, l’ungherese avrebbe ricevuto una Bmw cabrio rossa risalente agli anni ’90. Prima però di finire nelle mani di Nunajev, il mezzo sarebbe stato affidato a un intermediario milanese, anche lui residente a Budapest. Ma come finisce il presunto affare delle armi? Nelle carte dell’inchiesta non viene indicato.

Dopo la vicenda dei soldi falsi, da gennaio dell’anno scorso, quando è stato trasferito in Italia, Gandolfo si trova detenuto nel carcere di Rebibbia di Roma. In Slovacchia a costare caro all’uomo dei Mazzei sarebbero stati i contatti con due immobiliaristi, entrambi coinvolti nella falsificazione delle banconote e uno dei quali di origini italiane. Ad aiutarli ci sarebbero stati anche tre uomini con passaporto della Repubblica Ceca. Il gruppetto dei cechi avrebbe dovuto avere il compito di effettuare le stampe, ma i rapporti con Gandolfo e soci non sarebbero stati semplici: in un’occasione il test su una banconota da 20 euro fallisce per un presunto danno elettrico alla tipografia. Un episodio che induce i provetti falsari a dubitare dell’affidabilità dei complici.

L’ambizione del gruppo sarebbe stata quella di stampare tra 800mila e 80 milioni di euro, in base al taglio delle banconote. La fornitura di carta moneta sarebbe arrivata dalla zona di Padova grazie ai contatti che uno dei due immobiliaristi avrebbe avuto con la mafia del Brenta, si legge nei documenti slovacchi. Dopo essere stati stampati, i contanti sarebbero dovuti andare a finire in Ungheria, grazie alla complicità di due direttori di banca. L’intero progetto però fallisce quando gli investigatori di Bratislava chiudono il cerchio attorno a Gandolfo e ai suoi complici. Il catanese finisce dietro le sbarre e lì rimarrà fino al momento del trasferimento in Italia. Ma prima dello spostamento a interessarsi al suo destino sarebbe stato il capomafia gelese Salvatore Rinzivillo in persona. Il boss avrebbe cercato di affidarne la tutela legale all’avvocato romano Giandomenico Ambra perché «capace di cambiare le sorti giudiziarie dei propri clienti» ma poi anche lui finito in disgrazia perché indagato per concorso esterno in associazione mafiosa nell’inchiesta Extra fines. Le sorti di Gandolfo sarebbero state discusse anche nei colloqui di altri due personaggi ritenuti legati ai Rinzivillo: Marco Lazzari e Cristiano Petrone. Il primo considerato uomo dei servizi segreti e il secondo appartenente al Ros dei carabinieri.


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