«I giorni della vendemmia, un film naïf» Al cinema King in anteprima per il sud Italia

Ci sono una madre cattolica, un padre comunista e Berlinguer. Ma I giorni della vendemmia non è un film politico. È in programmazione dal 25 al 31 maggio al cinema King di Catania, in anteprima per l’Italia centro-meridionale, ma per farlo tornare nel Bel Paese c’è voluto tempo. «Le prime risposte, e quelle al momento più importanti, sono arrivate dall’estero». Marco Righi, 28 anni, è il regista dell’opera prima che la Federazione italiana del cinema d’essai ha definito un «film d’autore», «che significa che non appartiene a nessun genere, che è qualcosa che prima non c’era, ne sono fiero». Per questo, tra tutte le definizioni possibili, questa è quella che preferisce. Nato in un paesino in provincia di Reggio Emilia, Marco ha cominciato a interessarsi di regia e montaggio cinque anni fa, quando è andato a seguire dei corsi a Milano. Poi, tre anni fa, ha aperto il suo studio di produzione video: «Ho collaborato con varie agenzie, in qualche modo dovevo pur pagare l’affitto». Ma il soggetto di I giorni della vendemmia c’era già, mancava solo qualcuno che lo realizzasse.

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Dopo diversi cortometraggi e un documentario – Abbasso il duce, realizzato con Cosimo Bizzarri – Marco pensava di realizzare un mediometraggio. «Tra una cosa e l’altra ho conosciuto Simona Malagoli, che lavorava per un’agenzia e poi si è messa in proprio, creando la sua piccola casa di produzione». Cioè la Ierà, piccola ma con un motto ambizioso: «Cose fatte come dio comanda». «Questo film l’abbiamo fatto insieme, possiamo dire che ha quattro gambe e due teste – afferma il regista, che è anche sceneggiatore e montatore – Dura poco, 80 minuti, ma crediamo abbia il pregio di far pensare».

La storia è quella dell’adolescente Elia (Marco D’Agostin), che vive col padre comunista, la madre cattolica e un fratello giornalista musicale. Nel 1984, nell’entroterra emiliana. Poi arriva la vendemmia, e con lei Emilia (Lavinia Longhi). «Ci sono un sacco di elementi: la fine del partito comunista, la chiusura di un ciclo, il cattolicesimo pressante, tutte cose che fanno parte della nostra cultura». Nonostante questo, il soggetto è e rimane un ragazzino «che vive la sua personale rivoluzione quotidiana, mentre gli altri livelli si sviluppano sul territorio, nella famiglia». Una sola location, cinque attori, quattordici giorni di riprese, e una produzione costata «l’equivalente di uno spot pubblicitario di 30 secondi su una rete televisiva nazionale». Niente finanziamenti pubblici – «li abbiamo chiesti ma non ce li hanno dati» – solo gli investimenti di alcuni sponsor privati e quelli di regista e produttrice. «Stiamo recuperando qualcosa di quello che abbiamo speso – ride Marco – ma continuiamo a investire per fare promozione».

Premi vinti e candidature illustri – quella per i Globi d’oro, per esempio – ma per farsi conoscere è servito espatriare, fare il giro dei festival d’Europa, e non sperare in Roma: «Si può fare perché il digitale ha sdoganato molti limiti». Ma Marco Righi non è contento: «Non sono esterofilo e lo dico a malincuore: in Italia è troppo difficile». Non solo perché le scuole di cinema non ci sono, «ma anche perché tutto il panorama culturale vive un momento complicato, e l’austerità – come la chiamano i nostri politici – non aiuta». Un film come il suo gira grazie al passaparola, a internet e alla promozione su Facebook, «però non è una pellicola commercialmente semplice da piazzare». Un po’ naïf, l’ha definito qualcuno. «Nel senso che dove si vede mai uno che a ventott’anni si mette a fare un film con una produttrice neanche quarantenne?», commenta il giovane. Però la scommessa, per il momento, può considerarsi vinta: «Le persone si fanno ancora sorprendere dal cinema, è la sua magia». Lui, dal canto suo, vuole continuare a scrivere e dirigere: «Voglio fare il regista, ma intanto penso ancora a come pagare l’affitto a fine mese».


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