Un centinaio di sindaci a Roma per chiedere al governo misure per attingere a nuovi fondi. Ma perché nell'Isola i conti sono più in rosso di altre Regioni? Lo spiegano l'esperto di contabilità pubblica Dario Immordino e il presidente di Asael Matteo Cocchiara
Ecco perché le casse di molti Comuni siciliani sono vuote «Questione non solo finanziaria ma pure amministrativa»
Comuni in rosso e con le casse quasi vuote. Sui 391 dell’Isola, cento sono in dissesto o sotto piano di riequilibrio. Un numero che è cresciuto negli ultimi anni e che ieri ha portato un centinaio di sindaci, sotto l’organizzazione dell’Anci, a manifestare a Roma, in piazza San Silvestro, per chiedere al governo guidato da Mario Draghi delle misure per attingere a nuovi fondi e per poter gestire meglio quelli già a disposizione. «Siamo venuti qui – ha detto Leoluca Orlando, presidente di Anci e sindaco di Palermo – per chiedere al parlamento nazionale di emanare provvedimenti che mettano i sindaci nelle condizioni di chiudere i bilanci entro i termini previsti». In caso contrario, il rischio è di arrivare ad avere in Sicilia 250 Comuni commissariati «con a capo commissari che non saranno in grado di chiudere i bilanci in assenza di elementi contabili», ha aggiunto Orlando a margine degli incontri con la ministra per gli Affari regionali Maria Stella Gelmini, con la presidente del Senato Elisabetta Casellati, con la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, con il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli e con la viceministra dell’Economia Laura Castelli.
Un esercito di fasce tricolore giunto nella capitale per esporre problemi finanziari che sull’Isola sembrano essere più gravi che altrove e a portare un elenco di richieste al governo nazionale. «La crisi della finanza locale è generalizzata – ha spiegato durante la trasmissione Direttora d’aria Dario Immordino, avvocato ed esperto di contabilità pubblica – che, con caratteristiche diverse, riguarda gli enti locali di tutto il territorio nazionale che pagano le contraddizioni del federalismo fiscale». Sono i dati, però, a confermare che i Comuni siciliani sono più in difficoltà: il 61 per cento non ha presentato il bilancio di previsione e 81 per cento il rendiconto. «Questo significa che non si hanno gli strumenti finanziari di programmazione e di spesa. Il problema più grosso – ha sottolineato Immordino – rimane, comunque, la scarsa capacità di riscossione». Un problema non solo finanziario, dunque, ma anche amministrativo.
Le richieste da sottoporre al governo sono state riassunte in cinque punti. Il primo è la costituzione di un tavolo permanente in conferenza Stato-città e Autonomie locali con Stato, Regione e Anci per affrontare le criticità degli enti locali. «L’assenza comporta il fatto che le istanze dei Comuni arrivano a Roma con estremo ritardo – ha sottolineato Matteo Cocchiara, presidente dell’associazione siciliana degli amministratori degli enti locali (Asael) – In questa direzione, noi abbiamo proposta in Regione l’istituzione del Consiglio regionale delle autonomie locali. Un organo – ha spiegato – che darebbe agli enti locali la possibilità di dire la propria sulla legislazione. Oggi, invece, questo non avviene e i sindaci vengono a conoscenza delle norme direttamente leggendole sulla Gazzetta ufficiale».
Altra richiesta dei primi cittadini riguarda l’abbattimento del 50 per cento degli accantonamenti del fondo crediti di dubbia esigibilità (Fcde). Una norma, in realtà, lungimirante perché garantisce l’equilibrio finanziario: impedisce ai Comuni di spendere più risorse di quelle che incassano e, quindi, di andare in deficit. «In molti casi – ha osservato Immondino – non ci si è adeguati alle nuove regole contabili spesso difficili da applicare ma che garantiscono bilanci chiari e affidabili».
Pochi dipendenti e spesso avanti con l’età che non riescono ad agganciare un certo tipo di finanziamenti europei. Per questo i sindaci hanno chiesto anche l’assunzione di figure professionali qualificate in deroga alle disposizioni vigenti. «L’istituto Ambrosetti ha calcolato che in Sicilia la pubblica amministrazione costa alle imprese 5 miliardi di euro – ha fatto notare l’esperto di contabilità pubblica – con tempi lunghi per i procedimenti e opere pubbliche incompiute. Oltre a reclutare nuove figure – ha aggiunto – bisognerebbe fare una ricognizione delle competenze che servono e innestarle in un apparato funzionante».