La legge sull’apologia delle mafie tra limiti e possibilità «Dalla battaglia sociale si rischia l’inabissamento social»

Testi di canzoni, video musicali, cambi di percorso durante processioni religiose, contenuti sui social network. «La mafia vive di messaggi e certi messaggi vanno fermati. Qualsiasi sia il canale di cui si servono». Nasce da questa esigenza la proposta di legge, di cui è prima firmataria la deputata del M5s e componente della commissione antimafia Stefania Ascari, che prevede di introdurre nel nostro ordinamento l’aggravante dell’istigazione o dell’apologia del reato di associazione mafiosa. «È intollerabile che certi boss o certi stili di vita vengano lodati o proposti a modello – scrivono i deputati nel testo che accompagna la richiesta di modifica dell’articolo 414 del codice penale – Messaggi così pericolosi spacciati per arte». Su questo, in linea generale, sono tutti d’accordo. Le posizioni giuridiche divergono, però, sull’applicazione di questa norma che arriva dopo quelle sul fascismo e sul terrorismo che, solo raramente, l’hanno trovata. 

«Lo strumento penale serve anche come orientamento culturale». Ne è convinto l’avvocato Giulio Vasaturo che, da anni, rappresenta le associazioni che si occupano di contrasto alle mafie, come Libera, e che si costituiscono come parti civili in importanti processi di mafia«Questa legge servirebbe come monito per ribadire l’illegittimità e l’intollerabilità di certe condotte sempre più diffuse sui nuovi canali di comunicazione e che hanno presa soprattutto tra i più giovani», analizza il legale. Dall’altro lato c’è Costantino Visconti, penalista e docente di diritto penale dell’Università di Palermo che di mafie si è sempre occupato. «Le motivazioni sono comprensibili e condivisibili – spiega a MeridioNews – ma ci sono delle questioni tecniche che non è possibile trascurare». Prima tra tutte quella sull’adeguatezza del diritto penale a occuparsi di fenomeni socialiricorrenze religiose in cui si omaggia il boss, come nel caso della processione del venerdì santo del 2016 a San Michele di Ganzaria (in provincia di Catania) che subì una deviazione per fare in modo che il simulacro si inchinasse davanti alla casa del boss Ciccio La Rocca, che si trovava ai domiciliari. E cantanti neomelodici che esaltano le gesta di mafiosi, vedasi di Niko Pandetta – nipote del capomafia al 41bis Turi Cappello – che si è detto favorevole alla proposta di legge pur mostrandosi risentito per gli articoli che lo definivano «pentito» per i suoi trascorsi familiari e personali. Gli stessi artisti che sui loro profili social fanno mostra di soldi, armi, droghe e continui rimandi a una mentalità criminale. 

«La legge vuole provare a limitare la diffusione di queste condotte di richiamo apologetico alle organizzazioni criminali – dichiara Vasaturo – da parte di chi si serve di alcune forme d’arte, come la musica, per veicolare messaggi di propaganda delle mafie. Lo strumento penale – aggiunge – può essere utile, poi sarà la Corte costituzionale a fissare i parametri applicativi». Ed è proprio questo uno dei punti su cui si sofferma la riflessione dell’avvocato Visconti: «C’è un’inderminatezza che non consente di decidere quali sono i casi in cui ci si trova di fronte a questo tipo di reato; il confine è difficile da segnare». Nel caso del terrorismo, per esempio, la legge è stata applicata un paio di volte per quello di matrice islamica quando è stata provata l’esistenza di cellule che stavano tentando di riorganizzarsi dopo il proselitismo fatto sui social con messaggi esaltatori. «La proposta a me sembra una norma simbolo che non può avere nessuna efficacia e che, anzi, nell’illusione di avere trovato una soluzione, distoglierebbe dal vero problema che è di natura sociale», commenta Visconti convinto che quella modifica non sia lo strumento giusto per affrontare la questione. 

L’articolo 1 della norma proposta stabilisce che la pena è aumentata fino a due terzi «se il fatto è commesso durante o mediante spettacoli, manifestazioni o trasmissioni pubbliche o aperte al pubblico ovvero attraverso strumenti informatici o telematici». E che «non possono essere invocate ragioni o finalità di carattere artistico, letterario, storico o di costume». L’articolo 2 prevede, invece, che quando il reato viene commesso «mediante l’utilizzo di social network ovvero mediante emittenti radio o televisive o per mezzo della stampa, il soggetto responsabile della divulgazione del contenuto non conforme al divieto di apologia è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 10.000 euro e con l’obbligo di rettifica». «Non si può pensare di rieducare a colpi di diritto penale – afferma Visconti – non solo perché diventerebbe un mezzo rozzo e inefficace ma anche perché potrebbe creare una sorta di vittimizzazione di massa che avrebbe l’effetto contrario rispetto a quello sperato». Il penalista individua poi anche «il rischio di spostare tutto a un livello sommerso o clandestino». Esternazioni che oggi è facile trovare in video e dirette su Instagram o Tik Tok, potrebbero finire riservate a pochi intimi in canali privati di altri social o piattaforme online. Un pubblico di certo più selezionato con il rischio, però, che sia anche quello maggiormente interessato.  


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