A prendere la parola davanti ai giudici di Caltanissetta, per l’occasione in trasferta nella Capitale, sono i collaboratori di giustizia Vito Galatolo, Nino Giuffrè e Ciro Vara. «Di poliziotti corrotti ne passavano un bel po’ da vicolo Pipitone»
Via d’Amelio, tre pentiti ascoltati a Roma «La Barbera era sul libro paga di Resuttana»
«Che fa mi parrava u cuori? T’immagini eravate là, cosa poteva succedere?». Parole di sollievo quelle che Vittorio Tutino avrebbe detto a Vito Galatalo, appena ventenne, all’indomani della strage di via d’Amelio. Il 19 luglio ’92 lui e i suoi cugini, infatti, non si trovano in quel posteggio poco distante in via Autonomia siciliana in cui bazzicano tutti i giorni, a due passi dalla fiera del Mediterraneo. Quel giorno no. «Mio padre non prese bene la notizia di quella strage, un bel regalo gli avevano fatto, “menomale che erano coperti” mi disse, perché in quel modo peggiorava la situazione in carcere, a mio padre lo hanno portato all’Asinara col 41 bis. Lui era contrario alle stragi, si lamentava, anche se lui stesso aveva partecipato a quella contro Chinnici», è il racconto di Vito Galatolo, sentito dai giudici di Caltanissetta, in trasferta a Roma, in merito al processo a carico degli ex poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Tre uomini dell’ex gruppo investigativo Falcone-Borsellino, accusati di calunnia aggravata. «Via D’Amelio era territorio nostro, la famiglia di competenza era quella dell’Acquasanta e il mandamento quello di Resuttana, noi abitavamo a un chilometro circa – spiega il pentito -. In quella stessa via ci abitava mia sorella Giovanna, il giorno della strage io ero forse a Carini, non so se lei era a casa sua o da mia madre in via vicolo Pipitone. So che mio padre in carcere si è lamentato perché non furono chieste autorizzazioni e quella era la nostra zona».
Una zona che Galatolo conosce come le sue tasche e mentre racconta di strade, parcheggi, luoghi e scorci sembra quasi che ce li abbia davanti agli occhi. Come il bar Scatassa di via ammiraglio Rizzo, nei pressi del quale «bazzicava sempre in macchina Arnaldo la Barbera». Ma Galatolo il capo della mobile di Palermo non lo vede solo in giro nella sua zona. «Ho visto anche lui in vicolo Pipitone. Una traversa di via Gulì, dove c’è una vecchia manifattura di tabacchi, si gira e si arriva in fondo e poi ci sono delle casette vecchie e poi il nostro fabbricato, un palazzo di cinque piani tutto dei Galatolo, con dietro il giardino di proprietà nostra e prima di entrare nel palazzo c’è di lato una casetta, l’abbiamo sempre avuta noi, ci dormiva mio zio scapolo, tutte le riunioni le abbiamo sempre fatte là: Riina, Provenzano, passavano tutti da là. Gli omicidi di Dalla Chiesa e di Chinnici sono partiti da là». A cavallo tra gli anni ’80 e i ’90 Vito Galatolo, «nato dentro Cosa nostra», non è ancora punciutu ufficialmente, quello accadrà solo nel 2010; appena ventenne, non è che una sentinella della famiglia mafiosa, «vedevo tutti quelli che entravano e che uscivano, io e i miei cugini dovevamo badare a tutto, mentre dentro alla casuzza di vicolo Pipitone si facevano omicidi, anche quindici al giorno, si soppressavano le persone là; noi non lo sapevamo che stavano uccidendo le persone, ma poi abbiamo letto i giornali».
Vedere entrare e uscire anche La Barbera, quindi, gli fa comprendere, anche senza partecipare direttamente a quegli incontri, che lui «era uno corrotto, messo nel libro paga di Resuttana, veniva pagato per darci delle notizie». Questo però non gli impedisce di accarezzare l’idea di fargliela pagare quando, in quegli anni, La Barbera uccide un sodale durante una rapina. «Sempre un poliziotto era…Di solito quando un poliziotto uccide uno nostro della malavita si vanno cercando i rimedi per farcela pagare..invece quando ci siamo lamentati con mio zio, Giuseppe Galatolo, la risposta fu di levarcelo dalla mente, “lui non si deve toccare” – racconta il teste -. E poi siamo venuti a sapere che era una persona di fiducia nostra». Tra questi, secondo i racconti di Galatolo, ci sarebbe stato anche un altro braccio destro dei servizi segreti, Giovanni Aiello: «Quando ero ragazzino e veniva lui nel vicolo, prima del ’90, ci faceva impressione per come era combinato in faccia, un lato arrappato, tipo cucito, una cosa del genere, lo chiamavamo faccia da mostro noi, perché faceva impressione come persona. In quel vicolo l’ho visto un bel po’ di volte, una volta l’ho visto entrare col dottor Contrada, che ci avvisava di non tornare a casa quando c’era qualche blitz; anche con Gaetano Scotto non mancava mai, e anche con Nino Madonia. Di poliziotti corrotti ne passavano un bel po’ da quel vicolo». Ma non sa dire nulla rispetto al coinvolgimento di personaggi esterni a Cosa nostra nelle stragi nel ’92: «Non ero ancora stato formalmente combinato, ero solo un ragazzino, solo dopo ho letto sui giornali».
Dopo i suoi racconti, incredibilmente lucidi e freddi, che spaziano dai ricordi a cavallo fra gli anni delle stragi e quelli più recenti sul progetto di attentato a Nino Di Matteo («Il mandato era arrivato da Messina Denaro a Salvatore Biondino tramite lettere, stava troppo avanti e lo dovevamo fermare. Io sono stato arrestato con l’operazione Apocalisse, ma Vincenzo Graziano lo voleva portare fino in fondo, l’esplosivo lo aveva lui. Ho deciso di collaborare per dare un taglio a questa situazione e un futuro ai miei figli»), tocca a un altro storico pentito di Cosa nostra, il 74enne Nino Giuffrè, della famiglia di Caccamo. «Io non ho conosciuto Scarantino, non ho saputo chi fosse. Era stato considerato un povero pazzo, non sapeva quello che diceva e questo mi era stato confermato sia da Pietro Aglieri che da Carlo Greco e tant’è vero che poi volevano screditarlo cancellando il suo nome dal registro di un alberghetto dove era stato con una donna, facendolo passare per gay, quindi per forza di cose estraneo a Cosa nostra – racconta il teste -. “Chistu ni sta consumannu a tutti”, dicevano. Non mi risulta fosse della famiglia di Villagrazia, ma che la sua abitazione ricadesse nel loro territorio». Conosce invece La Barbera: «Mi ricordo di lui, aveva dei contatti con dei mafiosi molto influenti a Palermo – dice -. All’epoca Riina era latitante, siamo tra l’85 e l’86. Si diceva che lo avesse aiutato proprio durante la sua latitanza, poi su La Barbera non so altro». E infine i fratelli Graviano e i presunti contatti coi Servizi segreti deviati. «”Le cose non andranno sempre così male, si metteranno in meglio”, diceva Filippo Graviano, questa frase mi è rimasta impressa – sostiene Giuffrè -, alludeva a un punto di vista politico e alla situazione carceraria».
Prima di lui, anche il capo dei capi aveva sostenuto che le cose, malgrado il maxi processo, a un certo punto si sarebbero messe bene. «Ma già a dicembre del ’91 sapeva che in realtà non era così e la riunione di quel Natale fu la più brutta di cui ho memoria, la riunione della resa dei conti, una grande pentola a pressione che era stata troppo sul fuoco: Riina ha dichiarato guerra a tutti i suoi nemici, in particolare a Falcone e Borsellino, di cui si parlava già da prima, e ai politici che non avevano mantenuto i loro impegni, da Lima a Mannino e Vizzini, un elenco che non è mai finito – sostiene ancora il teste -. Ormai Riina era alle corde, ha perso la faccia e ha dichiarato guerra. E non era l’ambiente adatto per fare critiche. Nella Commissione si aveva l’impressione che si stava andando a sbattere contro il muro, ma gli ordini erano ordini, nessuno poteva tornare indietro». A sostegno di Cosa nostra ci sarebbero stati contatti con istituzioni esterne. «Riina non vietava l’appartenenza di un mafioso a una loggia massonica – dice -, però aveva sottolineato che” le cose nostre sono nostre, prendere e conservare”». Infine, a parlare è Ciro Vara, vicino ai Madonia e della famiglia mafiosa di Vallelunga, collaboratore dal 2002.
«Della strage di via d’Amelio ho detto quello che sapevo e prima che parlasse Spatuzza, che io nemmeno conosco – dice ai giudici -. Non ho mai detto nulla di Scarantino e della sua attendibilità, io non l’ho mai incontrato, non l’ho mai conosciuto. Però in carcere si parlava di quella strage, si diceva che dietro le sbarre c’erano persone innocenti…io non avevo elementi certi, ma queste erano le cose che si dicevano». Secondo lui il motivo scatenante delle stragi del ’92 sarebbe stata soprattutto la sentenza della Cassazione sul maxi processo: «Io non ero a conoscenza di niente, io ho parlato della riunione della Commissione regionale, avvenuta dopo quella sentenza, a cui non ho partecipato. Quando Madonia mi parlò delle indagini su mafia e appalti, nel ’91, mi disse che c’era preoccupazione in ambito imprenditoriale e politico, ma non fece nessun riferimento alle stragi, io ho sempre saputo che il motivo scatenante fu il maxi processo». L’udienza, sempre in trasferta a Roma, proseguirà oggi: toccherà a Gaspare Spatuzza e a Santino Di Matteo parlare davanti ai giudici nisseni.