Vecchio e Rovetta: il duplice omicidio senza verità Moventi e nomi e adesso un terzo pentito che parla

Quasi 29 anni. Tanto è passato dall’omicidio ancora irrisolto di Francesco Vecchio e Alessandro Rovetta. I due, rispettivamente responsabile del personale e amministratore della Acciaierie Megara, furono assassinati nella zona industriale di Catania il 31 ottobre 1990. Da allora le indagini, passate dalle mani di sei magistrati, si sono più volte arenate al punto che per tre volte la procura ha chiesto l’archiviazione; ma l’opposizione dei familiari, che continuano a pretendere la verità, e alcuni vizi di forma hanno fatto sì che il fascicolo rimanesse aperto. Una storia piena di punti d’ombra fatta di nomi, luoghi, possibili moventi che, anche grazie alle dichiarazioni di un nuovo pentito, potrebbero portare a importanti passi in avanti.

L’omicidio
Il 31 ottobre 1990 era un mercoledì. Sono da poco passate le 18 quando Alessandro Rovetta – divenuto amministratore unico della Acciaierie Megara dopo la morte del padre – sale a bordo della Peugeot 505 di Francesco Vecchio. Si tratta di un fuori programma, un modo come un altro per tornare a casa. Quella sera, però, nessuno farà rientro nella propria abitazione. Intorno alle 19.15 l’automobile viene ritrovata dalla polizia nei pressi del quarto scalo della stazione ferroviaria di Bicocca. All’interno ci sono i corpi senza vita dei due uomini: Vecchio, che era alla guida, viene ritrovato con la testa fuori dal finestrino lato passeggero. Il suo corpo sovrasta quello di Rovetta, ucciso con indosso la cintura di sicurezza. Un particolare, quest’ultimo, insolito considerate le abitudini dell’uomo.

La ricostruzione dell’agguato
I killer sparano numerosi colpi. Gli esami balistici si concentrano sui tre proiettili che raggiungono l’auto. I primi due sarebbero stati esplosi nella fase di sorpasso della Peugeot 505, uno si conficca nel telaio dell’auto tra i due finestrini, mentre l’altro va a segno uccidendo Rovetta. Il terzo, invece, quello indirizzato a Vecchio sarebbe stato sparato frontalmente e dall’alto. Questa ricostruzione fino a oggi non ha mai convinto i familiari di Vecchio. La tesi secondo cui l’uomo avrebbe tentato di scappare dal finestrino viene ritenuta inverosimile. A mettere in dubbio l’ipotesi di un sorpasso è invece la cintura di sicurezza indossata da Rovetta. Considerato che l’uomo non era solito agganciarla, i parenti di Vecchio non escludono che i killer, sfruttando l’oscurità, abbiano simulato un posto di blocco.

Il contesto
Oltre alle forze dell’ordine, sul posto poco dopo l’omicidio arrivano anche curiosi e giornalisti. Le foto dell’agguato l’indomani finiscono sui giornali. D’altronde, nonostante siano anni in cui il sangue scorre sulle strade, quanto accaduto ha una forte risonanza. Si tratta di un delitto eccellente, compiuto poco tempo dopo la notizia del finanziamento da 60 miliardi di lire che la Regione aveva concesso alla Megara per ristrutturare gli impianti. Ma in quei mesi era accaduto anche qualcos’altro, un cambiamento importante, seppure noto soltanto a chi lavorava nell’azienda: Vecchio aveva iniziato a occuparsi della gestione del personale delle imprese dell’indotto dopo che Rovetta aveva imposto l’allontanamento di un altro dirigente, Severo Robolini. Tra le novità introdotte da Vecchio c’era stato un rigoroso controllo degli ingressi allo stabilimento, grazie anche alla presenza di una guardia giurata. All’origine di quella decisione forse la volontà di mettere un argine a un fenomeno che, a quanto pare, fino a quel momento era stato tollerato: tra i lavoratori che ufficialmente risultavano essere impiegati dentro l’acciaieria c’erano pure alcuni pregiudicati che godevano del permesso di lavorare, ma che in realtà in parecchie circostanze avrebbero soltanto simulato la presenza alla Megara. Robolini, pochi giorni dopo il delitto, ritornerà in Sicilia, riprendendo il proprio posto e ripristinando la gestione precedente. All’uomo, deceduto negli anni scorsi, nel 2006 è stata conferita la Stella al merito del lavoro dal presidente della Repubblica.

Le versioni dei pentiti
Maurizio Avola, Giuseppe Ferone e adesso Francesco Squillaci. Tre collaboratori di giustizia che mischiano moventi, esecutori e mandanti. Soltanto uno di loro, Avola, ha collocato il delitto all’interno della famiglia catanese di Cosa nostra. Gli altri due, Ferone prima e Squillaci recentemente, hanno raccontato ai magistrati una storia differente con rimandi al clan Sciuto-Tigna. Nessuno dei tre pentiti è stato testimone diretto quella sera ma in particolare due di loro, Ferone e Squillaci, spiegano di avere saputo i dettagli da Mario Buda, fratello del più noto Orazio, ritenuto un boss del clan Cappello.

«Mario Buda è venuto allarmato – racconta Ferone in un verbale del 2008 – dicendo che suo cugino Carmelo Privitera, insieme a Rosario Russo, avevano commesso l’omicidio e per sbaglio avevano ammazzato anche il signor Rovetta». In realtà, in un primo momento, il pentito fa il nome di Orazio Privitera, fratello di Carmelo, ma poi si corregge riconfermando quanto dichiarato nel 1995, in occasione del primo interrogatorio. Peraltro, all’epoca dei fatti, Orazio Privitera era detenuto. Sia Privitera che Russo, i due presunti esecutori, erano nel gruppo mafioso di Ferone. Motivo per cui il boss avrebbe saputo dei problemi che un imprenditore del settore ferro, «tale Rapisarda», aveva iniziato ad avere con un dirigente della Megara per alcuni lavori all’interno della acciaieria. Gli inquirenti individuano in Rapisarda uno dei fratelli Carmelo e Francesco. Nativi di Tripoli, nel 2016 sono stati coinvolti in un’inchiesta sui rapporti tra mafia e massoneria. «Si decise di fare l’estorsione a questo dirigente (Vecchio, ndr) per indurlo a rivolgersi a qualcuno», ricostruisce Ferone. Le minacce arrivano al telefono, sono numerose le volte in cui a casa di Vecchio il telefono squilla e partono gli avvertimenti. Secondo Ferone, Vecchio, un giorno, avrebbe speso, indicandolo per nome e cognome, la sua presunta vicinanza a Giovanni Fazio, all’epoca ritenuto vicino al clan Cappello. Ma la mossa del dirigente della Megara, forse un tentativo per allontanare gli estorsori, sarebbe stata letta come un passo falso. Ferone spiega ai magistrati che non rientra nei codici della criminalità chiamare in causa la protezione di un singolo esponente, bensì quella di un gruppo. Tale errore avrebbe portato alla decisione, non è chiaro presa da chi, di sparare per uccidere. Dopo essere venuto a conoscenza del delitto, Ferone avrebbe dato l’ordine di non parlarne con nessuno, per evitare che Aldo Ercolano, alla ricerca di notizie sui responsabili, potesse ritenere lo stesso Ferone coinvolto.

«L’omicidio? Non ha niente a che vedere con Cosa nostra». Di questo è sicuro Francesco Squillaci i cui verbali sono finiti nel processo all’editore Mario Ciancio Sanfilippo. Quando l’ex boss parla davanti ai magistrati spiega di avere saputo i dettagli grazie a un periodo di detenzione trascorso con Mario Buda (lo stesso che cita Ferone, ndr). A volere il delitto, stando al suo racconto, sarebbe stato Orazio Privitera. Lo stesso uomo citato da Ferone, salvo poi correggersi e puntare il dito contro il fratello Carmelo Privitera. «C‘era un cugino o un parente di Privitera, che confinava con la Megara, a cui era stato chiesto di lasciare il suo posto», precisa Squillaci. Subito dopo il delitto, nella confusione generale, l’allora boss si sarebbe informato anche con altri mafiosi per capire chi aveva premuto il grilletto, ma nessuno a quanto pare conosceva la risposta.

Il pentito introduce anche un elemento nuovo. Collega il duplice delitto all’omicidio di Sebastiano Villa, operaio della Acciaieria Megara, ucciso nel ’92 da un commando guidato proprio da Squillaci. L’esecuzione sarebbe stata compiuta su richiesta di Nitto Santapaola. «S’ava fari un favuri o ziu», racconta il collaboratore di giustizia. Aggiungendo che il capomafia avrebbe avuto l’interesse a punire l’operaio, perché quest’ultimo, ritenuto vicino al clan Sciuto-Tigna, sarebbe stato a conoscenza della progettazione dell’omicidio di Vecchio e Rovetta. Santapaola, nello specifico, avrebbe temuto che il delitto potesse pregiudicare il prosieguo delle estorsioni a danno della Megara. Apprensione che avrebbero avuto anche i corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Squillaci, infatti, ai magistrati spiega come il duplice omicidio abbia infastidito anche Cosa nostra palermitana «perché l’acciaieria Megara era cosa nostra». A finire nelle indagini è stato anche un pizzino di Provenzano in cui si parlava dell’esigenza di definire «il discorso della ferriera».

Natale Di Raimondo, Umberto Di Fazio e Filippo Branciforte sono invece i nomi che, nel 1994, Avola indica come esecutori materiali. Il delitto sarebbe stato consumato all’interno della famiglia di Cosa nostra per il mancato ingresso degli Ercolano nella Megara, pretesa che Pippo Ercolano avrebbe avuto nonostante l’acciaieria fosse sotto estorsione dal 1983. L’azienda avrebbe pagato un pizzo da cento milioni di lire all’anno dopo che lo stesso Avola aveva fatto esplodere un ordigno dentro una cabina elettrica dello stabilimento. Tuttavia la versione dell’ex killer dei Santapaola contiene passaggi pochi chiari. Nel primo verbale racconta di una riunione che sarebbe stata organizzata alla presenza di Aldo Ercolano, in un ufficio di via Ramondetta, per concordare il delitto su volere di Nitto Santapaola. «Si parlò di uccidere solo una persona quindi devo ritenere che l’altro fu ucciso soltanto casualmente», spiega Avola, specificando che l’obiettivo dei killer sarebbe dovuto essere soltanto Rovetta. Il delitto sarebbe avvenuto qualche giorno dopo questo presunto incontro. «L’incarico venne dato ai killer più esperti su cui poteva contare Natale Di Raimondo. La scelta è caduta sicuramente su Franco Di Grazia, Salvatore Pappalardo e Giovanni Rapisarda». Il riferimento a Di Raimondo nasce da un ricordo: durante la riunione in via Ramondetta, Avola avrebbe visto Ercolano appartarsi con Di Raimondo. In quel momento, secondo il collaboratore, sarebbe stato affidato il compito. Tuttavia Di Raimondo, passato a collaborare con la giustizia, non ha mai riconosciuto il proprio coinvolgimento nel delitto. 

Sentito una seconda volta nel 2008, Avola aggiunge i nomi di Filippo Branciforte e Umberto Di Fazio. Perché non lo ha fatto prima? «Avevo qualche resistenza ad accusare ragazzi che come me erano vittime dell’organizzazione. In particolare ero legato a Di Fazio che sapevo aveva avuto una vita difficile. Gli avevano ucciso un fratello e non volevo essere io ad accusarlo di fatti che potevano comportare l’ergastolo».

La riapertura delle indagini
A ottobre del 2017, dopo l’ennesima opposizione alla richiesta di archiviazione da parte della famiglia Vecchio, il giudice per le indagini preliminari Nunzio Sarpietro ha disposto la restituzione degli atti al pubblico ministero affinché si facciano ulteriori indagini. Nonostante, in tutti questi anni, il fascicolo sia stato sempre a carico di ignoti. «Si tratta di riprendere ex novo tutte le dichiarazioni che sono state rese nel tempo dai collaboratori di giustizia e dai testimoni, incrociandole nuovamente e rivedendole a distanza di anni con gli stessi soggetti che le hanno rassegnate, soffermandosi sui particolari che possono sembrare generici o addirittura non rilevanti – scrive il gip – cercando soprattutto di ricostruire quello che era l’humus in cui nel periodo immediatamente precedente al grave attentato le due vittime si trovarono ad agire». 


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