Breve viaggio all'interno del primo "vero" disco del Faber: uno sguardo disincantato sull'universo dei derelitti e dei drogati, all'insegna del barocchismo e della poesia pura
Tutti morimmo a stento
Nel 1968, Fabrizio De André ha ventotto anni e due uscite discografiche ufficiali alle spalle (“Tutto Fabrizio De André” e “Volume I”), entrambe più vicine alla raccolta di canzoni che al disco concepito come tale, organico dalla testa alla coda. Arriva, quel primo “vero” disco, appunto, nel 1968. Arriva nell’anno della rivoluzione e, con la delicatezza di uno stormo di farfalle, cambia in modo definitivo i connotati della musica italiana, la quale non aveva mai accolto fra i propri scaffali ideali un “concept-album”.
Una rivoluzione nella rivoluzione. Un calcio in bocca alla forma stereotipata della canzonetta, dunque, e un’apertura a influenze musicali di respiro europeo; è palese anziché no, infatti, l’influenza di quei gruppi anglosassoni appartenenti alla scena del Progressive-Rock, come i King Crimson e i Jethro Tull; influenza che, in Italia, cominciava a dilagare proprio in quegli anni, contaminando col suo sentore barocco gruppi come i New Trolls e la Premiata Forneria Marconi. Tutto questo concettualismo e barocchismo viene perfettamente racchiuso nel sottotitolo che De André scelse per l’opera, “Cantata in Si Minore per solo, coro e orchestra”; sì, perché è più facile percepire “Tutti morimmo a stento” come una cantata di 25 minuti, piuttosto che come un insieme di canzoni legate l’una all’altra. Non ci sono pause, non c’è tregua per l’animo di chi ascolta, come non ce n’è per chi vive dentro quelle piccole storie e, probabilmente, non ce n’è neppure nell’animo di canta e racconta: è tutto un amaro scorrere di poesia in musica, sempre risonanti, come da titolo, della cupa tristezza della tonalità minore. L’incipit è affidato allo stupendo “Cantico dei drogati”, perché è bene che chi ascolta abbia sin da subito chiara la natura del viaggio che sta per compiere: un viaggio nei gironi infernali della coscienza umana, tempestato dai venti del fallimento e dell’amarezza. E’, questo brano d’apertura, frutto della collaborazione tra De André ed il poeta/amico Riccardo Mannerini, il quale aveva composto “Eroina” (poesia dalla cui linfa scaturirà il suddetto Cantico). Non è questo, tra l’altro, l’unico caso di “traduzione” in musica di opere già esistenti presente nel disco: c’è “Leggenda di Natale”, che riprende il testo di un brano del cantautore francese George Brassens uscito dieci anni prima; c’è “Girotondo”, costruita sulla celebre filastrocca per bambini; e c’è, soprattutto, “La ballata degli impiccati”, ispirata dalla “Ballade des pendus” di François Villon (all’interno della quale rivive quell’universo popolato da sconfitti e derelitti che occuperà, con i suoi gemiti di disperata rassegnazione, una fetta importante della produzione deandreiana).
Questo continuo ispirarsi e riadattare opere già edite sarà una costante nella carriera di De André ed è sintomatico del suo spirito oltremodo curioso (“Perché già dalla prima trincea ero più curioso di voi”). Ma torniamo al “Cantico dei drogati”. “Ho congedato Dio / Gettato via un amore / Per costruirmi il vuoto / Nell’anima e nel cuore”. Così esordisce, il disco e la canzone, e nessuno ha dubbi sulla natura del viaggio. Il giro armonico e le dinamiche scandiscono le varie fasi del tormento dell’autore/protagonista (in questo caso un tutt’uno, su ammissione dello stesso De André): tonalità minore e lievi carezze agli archi nelle strofe; tonalità maggiore e tripudio orchestrale nel ritornello. Il protagonista è un drogato: è un uomo che invoca pace; che invoca la morte senza avere il coraggio di affrontarla; che sente bruciare i graffi della vita in tutta la loro crudeltà e non può far nulla, se non invocare pietà. L’eco del suo urlo, insieme a quello degli altri personaggi che popolano il disco (gli impiccati, il Re infelice, la bambina stuprata nella notte di Natale), sembra provenire da un sottosuolo dostoevskiano, onde poi spegnersi sull’orlo dell’orecchio di chi ascolta, lasciandogli un groppo in gola.
E’ in questo disco la celebre, sontuosa, bellissima “Inverno”, ovvero il canto di chi non vede che distese di bianca neve che annullano la percezione e, con essa, il sentimento, mentre si attende con ansia “la stagione del biancospino” in cui, forse, si tornerà a vivere.
A legare una canzone all’altra in un abbraccio indissolubile, vi sono tre intermezzi, i primi due dei quali perfettamente identici nella musica, e al terzo dei quali seguirà il brano bipartito Recitativo/Corale, per chi scrive uno dei vertici della produzione deandreiana. E’ un lungo componimento poetico scritto in endecasillabi in rima alternata, nei quali l’invettiva contro i “semidei” della società si mescola all’amarezza e al rimpianto per aver “dell’inumano varcato il confine”. L’algida recitazione si intreccia al giro armonico barocco eseguito dall’orchestra ed è come trovarsi la Morte in faccia e non sapere cosa dirle. E’ come arrampicarsi su per una scalinata vertiginosa; ed è una volta arrivati in cima che si giunge al climax, all’apice che è anche punto di rottura: “Sappiate che la morte vi sorveglia / Gioir nei prati o fra i muri di calce / Come crescere il gran guarda il villano / Finché non sia maturo per la falce”. E’ così che si chiude il disco.
E non conosco un modo migliore per chiudere questa recensione.