Reportage Italia, il sito fondato da un collettivo di giornalisti, fotografi e videomaker con lo scopo di fare slow journalism, un giornalismo di qualità e approfondimento ma utilizzando il mezzo velocissimo della Rete, è stato presentato al Festival di Perugia da Lucia Annunziata, in un incontro che è diventato una vera lezione sul mestiere di fare informazione
Stanchi di rincorrere notizie
Un gruppo di giornalisti, fotografi e video maker si sono ritrovati nel 2009 a discutere su quanto fossero scontenti del tipo di giornalismo che facevano e di come avrebbero voluto scommettere sul Web. Così è nato reportageitalia.it (Extramedia, fino a sei mesi fa), un contenitore di reportage che scommette sullo slow journalism, il giornalismo di approfondimento lontano dai ritmi frenetici dell’informazione odierna, presentato venerdì mattina da Lucia Annunziata al Festival del Giornalismo di Perugia.
«Siamo stanchi di rincorrere notizie e scoop. Vogliamo riscoprire l’approfondimento con l’obiettivo che i lavori prodotti riescano a parlare anche a chi li vedrà tra dieci anni, come un documento di ciò che è successo davvero», dice Laura Eduati, co-fondatrice di Reportage Italia, e membro del collettivo che porta avanti il progetto, fatto di volontari autogestiti che non hanno un editore, ma lo cercano.
Il problema è sempre lo stesso: le idee ci sono, ma i soldi no: “Reportage Italia non ha editori. Ecco perché abbiamo bisogno anche del tuo sostegno per continuare a viaggiare. La novità è che, a differenza di qualsiasi pubblicazione su carta e web, i lettori possono suggerire storie e finanziarle direttamente attraverso un abbonamento”, si legge sul loro sito. Lo slogan che hanno scelto è “un euro un chilometro”, perché ogni euro che riceveranno – per sostenere il progetto si può decidere di spendere 5 euro per leggere i reportage per due mesi e 10 euro per sei – equivarrà ad un chilometro del loro viaggio.
Madrina della presentazione, la giornalista Lucia Annunziata che ha spiegato il perché del suo sostegno all’iniziativa con quello che, invece del solito discorso di promozione, elogio e pubblicità, è stato una vera e propria lezione di giornalismo.
«Quest’anno sono 41 anni che faccio questo mestiere, più slow di così. E non ho mai ricevuto avvisi di garanzia né smentite: questo è il vantaggio di essere “lenti” in questo Paese». Comincia con una battuta l’Annunziata prima di parlare della malattia che affligge oggi il giornalismo.
«Il giornalismo – dice – è diviso da una linea sottile che separa due aspirazioni: quella di fare la professione del giornalista e quella di far parte del mondo delle celebrities».
Da un lato quindi una professione nobile e umile, quella per cui si raccontano i fatti restando dietro le quinte, e dall’altro il peccato di cui si macchiano molti giornalisti, quello di giocare sulla compiacenza del pubblico, che per la conduttrice di “In mezz’ora” non è una questione di destra o sinistra – “ci sono narcisi di entrambi gli schieramenti”, dice – ma di come si percepisce il mestiere. E per lei non ci sono dubbi: «La strada da scegliere è quella dell’artigianato che, se vogliamo, è anche quella della poesia».
«Il vero giornalismo – spiega l’Annuziata – cerca di trovare nella cronaca gli elementi che resteranno nella storia, perché l’interpretazione dei fatti con l’occhio di chi li vedrà tra dieci anni è il cuore del nostro mestiere. È un’arte legata al talento individuale, agli itinerari intellettuali di chi scrive e il prodotto contiene in sé chi lo fa. Tutto quello che sei finisce nel prodotto, che è l’unica cosa che conta, mentre il protagonismo del giornalista è solo apparentemente il modello vincente, ma non dura».
Ovviamente, ammette la giornalista, è importante essere riconosciuti per il lavoro che si svolge, ma «c’è un filo molto sottile che differenzia il giornalista che rappresenta il prodotto e quello che finisce per essere il prodotto. Se diventerete quest’ultimo tipo di giornalisti avrete perso il mestiere, perché, anche se è vero che la competizione per emergere è sempre più viva a causa dei nuovi mezzi di comunicazione, ciò che non cambia mai è quello che nelle redazioni, dalla più rinomata alla più scadente, si valuta: e cioè chi ha più notizie prima degli altri».
«Stamattina – continua – solo Repubblica è uscita con la notizia della morte del ragazzo (Vittorio Arrigoni, il volontario italiano rapito e ucciso a Gaza, ndr). Questo vuol dire che qualcuno è andato a letto troppo presto e che il direttore non ha fatto la telefonata dell’una di notte. E vi assicuro che in una redazione oggi qualcun altro ballerà».
L’Annunziata appoggia Reportage Italia perché in Italia c’è bisogno di un giornalismo di qualità e approfondimento e nuove iniziative. «Nel nostro Paese – dice – si fa sempre meno questo tipo di giornalismo, si spacciano per inchieste pezzi che sono più lunghi, non perché raccontano qualcosa in più ma solo perché sono pieni di aggettivi. Trucchetti che non sfuggono a occhi esperti. All’estero invece non è così».
Per la giornalista questa differenza dipende dall’assetto proprietario editoriale italiano: «In Italia c’è un mercato piccolo e malato perché il capitalismo è ancora ampiamente e nascostamente di Stato e le privatizzazioni portano, in fondo, sempre agli stessi gruppi. Non c’è quindi spazio per le innovazioni di mercato». E continua spiegando come le distorsioni del mercato c’entrino con lo sviluppo italiano, racconta la sua esperienza con l’AP.Biscom che non è riuscita a bucare il mercato perché ostacolata dai soliti gruppi di potere, e si scusa retoricamente con i giovani giornalisti o aspiranti tali che gremiscono la sala: «Forse questi discorsi vi sembrano noiosi, ma se volete fare i giornalisti, vi dovete occupare di queste cose. È fondamentale sapere da dove arrivano i soldi e di chi è la proprietà, così come è fondamentale essere consapevoli che in Italia non esistono editori puri e i pochi che c’erano si sono venduti ai ricchi».
Per la giornalista il mercato è fermo per ragioni opportunistiche e anche perché metà del Paese ha smesso di ragionare; quindi, benvenute le nuove esperienze, perché per ogni iniziativa che nasce, anche per quelle che vanno male, qualcosa rimane, qualcuno ha imparato qualcosa, e solo così si può andare avanti con l’innovazione, creare ricambio generazionale e sviluppo intellettuale.
«Il problema italiano – afferma l’Annunziata – è la mia generazione, quella dei sessantenni. Una generazione che è parte di un modello morto da tempo, ma che si batte, pensate, per essere il rinnovamento.
Dei settantenni – continua ironica – non mi preoccupo, quelli quando mi parlano sono già in paradiso quindi li ascolto con tranquillità. Però sono contraria a chi dice che i vecchi devono lasciare il posto ai giovani. Non deve andare così. Sono le giovani leve che devono prendersi il loro spazio con le cose che hanno da dire e tentare di bucare il mercato dei media senza farsi cooptare».
E conclude con una promessa: «Se rimango a lavorare ancora per molto tempo in Italia, cercherò di mettere in piedi un gruppo editoriale a patto però che abbia un punto di forza e cioè il prodotto».
Prima di congedare il pubblico, Laura Eudati di Reportage Italia ci tiene a precisare: «Non abbiamo un taglio politico, vogliamo semplicemente raccontare i fatti senza pregiudizi». Questo però dovrebbe essere un assunto base del giornalismo, perfino scontato e banale, e invece in un Paese come il nostro può suonare come rivoluzionario e rappresentare la novità.
Ma non sono le parole che si deve scegliere di sostenere o i principi fondanti del giornalismo travestiti da innovazione. I reportage presentati durante l’incontro, come l’audio slide show sul 14 dicembre, giorno in cui si è votata la fiducia al Governo, tra le cui foto c’è anche quella che ha vinto il 3° premio al Pictures of the year di Washington, sembrano veramente buoni. E, come dice l’Annunziata, quel che conta è il prodotto.