Omicidio Simona Floridia: dopo la condanna dell’amico in primo grado inizia il processo d’Appello

Si è aperto questa mattina al tribunale di Catania il processo d’Appello per l’omicidio della 17enne Simona Floridia. Sul caso della scomparsa della 17enne di Caltagirone, avvenuta il 16 settembre del 1992 e il cui corpo non è mai stato ritrovato, un primo punto era arrivato, a oltre trent’anni di distanza, con la condanna a 21 anni di carcere per omicidio aggravato dai futili motivi di Andrea Bellia. Un ragazzo che, all’epoca, faceva parte della stessa comitiva di amici della vittima. Per lui, che si è sempre proclamato innocente, i legali difensori avevano chiesto l’assoluzione; mentre l’avvocato che assiste i familiari di Simona Floridia, Giuseppe Fiorito, aveva chiesto la pena dell’ergastolo. Ventiquattro erano stati gli anni di condanna richiesti dalla procura alla fine di una lunga requisitoria da parte delle pm Samuela Lo Martire Natalia Carozzo che avevano sottolineato «un atteggiamento di chiusura e ostilità» da parte dell’imputato.

Il processo, riaperto a distanza di oltre un quarto di secolo dall’archiviazione del primo fascicolo, adesso è arrivato al secondo grado di giudizio dopo che l’avvocata Pilar Castiglia, che difende l’imputato, ha presentato ricorso in Appello. Tra le battute iniziali di questo nuovo procedimento, davanti alla presidente della terza sezione Elisabetta Messina, ci sarà la richiesta del subentro come parte civile del fratello di Simona Floridia al posto del padre Salvatore che è deceduto a maggio dello scorso anno. Meno di un mese dopo la condanna di primo grado di Andrea Bellia che, come sempre, era presente anche questa mattina nell’aula del tribunale etneo. La prossima udienza è già stata fissata per lunedì 11 marzo quando al centro ci saranno tutte le questioni preliminari e il rinnovamento dell’istruttoria dibattimentale.

Fondamentale per arrivare alla riapertura del processo, dopo 26 anni, è stata una conversazione telefonica intercettata che era avvenuta il pomeriggio del 16 settembre del 1993, un anno dopo che di Simona Floridia si era persa ogni traccia. A parlare tra loro sono Mario Licciardi – ex fidanzato di Simona Floridia e amico dell’imputato – e Rossella Figura, che all’epoca era la sua ragazza e che oggi è sua moglie. Un dialogo in cui Licciardi racconta alla donna di avere ricevuto da Bellia la confessione che a fare sparire Simona Floridia sarebbe stato lui che, proprio quel giorno, sarebbe andato a trovarlo al lavoro per chiedergli di riconoscere davanti ai giornalisti della trasmissione Rai Chi l’ha visto? la voce della giovane scomparsa. «Io gli ho risposto: “Ma che spacchio vuoi? Non mi dovete cercare. Non mi interessa niente». La ragazza risponde con una domanda che lascia intuire che l’argomento non fosse nuovo: «Ancora vengono a rompere l’anima?». E Licciardi aggiunge: «E poi mi voleva dire il fatto che l’aveva ammazzata lui… Quella gran minchiata…Mi ha detto: “È inutile che cercano e che fanno”».

Una chiamata che, come si legge nelle motivazioni della sentenza di condanna dell’imputato, «dimostra in modo inconfutabile non solo il tentativo di depistaggio da parte di Andrea Bellia ma soprattutto la confidenza-confessione dell’imputato sulla sua responsabilità». Nonostante fosse «ben conscio di averla uccisa», l’uomo sarebbe anche stato consapevole del fatto che gli inquirenti «non avrebbero mai potuto trovare il corpo della ragazza, gettato nella scarpata sottostante al monte San Giorgio». La tesi portata avanti dell’accusa è che Bellia – all’epoca ufficialmente fidanzato con Simona Regolo, storica amica di Simona Floridia, che al processo è stata la teste che ha detto più «non ricordo» – avesse una relazione sentimentale clandestina con Figura, la ragazza del suo amico. E che la vittima lo avesse scoperto e non fosse intenzionata a tenerlo per sé. Incroci di rapporti interpersonali che sono stati al centro di molte udienze del processo che ha portato alla condanna dell’imputato. «Impedire che potesse rivelare all’allora fidanzata l’esistenza di un’ulteriore relazione sentimentale». È questo, in effetti, il movente messo nero su bianco nella sentenza emessa dalla corte d’Assise di Catania presieduta dal giudice Sebastiano Mignemi.


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