Il Tar si è espresso sull'autorizzazione stoppata dopo la scoperta di una compravendita in cui era coinvolto un uomo accusato di mafia. A sbloccare la partita era stato Tuccio D'Urso, oggi uomo di fiducia di Musumeci per il potenziamento degli ospedali
SiciliAntica vince ricorso su cava di Fassa Bortolo «Determina del dirigente generale era illegittima»
La determina con cui l’allora dirigente generale della Regione Tuccio D’Urso aveva ridato speranza alla Fassa Bortolo di avviare la cava di calcare a monte Scalpello, nel territorio di Agira, è illegittima. A stabilirlo è stata la terza sezione del Tar di Palermo che ha accolto il ricorso presentato da SiciliAntica, l’associazione che negli ultimi tre anni si è battuta per la difesa dell’area acquisita dalla nota impresa veneta. Al vaglio della valutazione dei giudici amministrativi è finita la decisione con cui D’Urso, pochi giorni prima di andare in pensione, aveva sciolto una querelle che andava avanti da circa due anni. Da quando, a fine novembre 2018, il distretto minerario di Caltanissetta, che ha competenza anche su Enna, aveva revocato l’autorizzazione data il giugno precedente alla Fassa Bortolo per la coltivazione della cava.
All’origine dello stop c’era stata la scoperta di una vicenda con rimandi alla cronaca giudiziaria: tra i soggetti che avevano venduto i terreni all’azienda veneta figurava anche Giuseppe Pecorino, uomo in odor di mafia e poi condannato in via definitiva a oltre quattro anni. Una presenza, quella di Pecorino, che ha portato alla violazione del patto di integrità stipulato tra privato e pubblico e a nulla erano valse le giustificazioni dell’azienda, che ha sempre affermato di non essere a conoscenza della presunta caratura criminale dell’uomo. Le rimostranze della società si sono manifestate sia sul fronte dei ricorsi amministrativi che di sollecitazioni nei confronti della Regione. Come quella arrivata ad agosto 2020, poco prima che D’Urso – nelle vesti di vertice del dipartimento all’Energia, la struttura che sovrintende il lavoro dei distretti minerari – decidesse di agire di propria iniziativa annullando la decadenza e riesumando l’autorizzazione originaria, a condizione che il contratto d’acquisto dei terreni venisse rivisto eliminando tutte le clausole che potessero in qualche modo produrre effetti giuridici nei confronti di Pecorino e dei suoi parenti. Fatto quest’ultimo che, secondo SiciliAntica, non si è mai concretizzato.
Indipendentemente da ciò, per il Tar la determina firmata da D’Urso, che dopo il pensionamento è stato nominato da Nello Musumeci soggetto attuatore del potenziamento delle strutture ospedaliere durante il Covid, non ha carattere di legittimità. Il motivo sta nel fatto che D’Urso si sarebbe potuto sostituire al dirigente del distretto minerario, a lui sottoposto a livello gerarchico, soltanto nel caso di inerzia di quest’ultimo. Inerzia che però non ci sarebbe stata. Già a maggio scorso, il Tar aveva accolto la richiesta di sospensiva cautelare fatta da SiciliAntica ritenendo fondato il vizio di incompetenza.
«Tutto l’iter procedimentale – si legge nella sentenza depositata ieri – è stato seguito dal distretto minerario di Caltanissetta, inclusa la determina autorizzativa del 15 giugno 2018 e di decadenza della stessa del 27 novembre 2018. Tutte a firma dell’ingegnere capo del distretto Michele Brescia. Competente ad adottare il provvedimento di annullamento d’ufficio era quindi lo stesso distretto minerario di Caltanissetta». Sulla presunta inerzia degli uffici, il Tar si è così espresso: «Nel caso di specie, emerge in tutta evidenza l’insussistenza della situazione di inerzia legittimante l’intervento sostitutivo del dirigente generale rispetto al potere di annullamento d’ufficio spettante al dirigente del Servizio V, la cui sollecitazione da parte di Fassa non era in verità idonea a generare, stante la natura ampiamente discrezionale del potere, alcun obbligo di provvedere». Dal canto suo D’Urso aveva spiegato a MeridioNews di avere firmato la determina di annullamento della decadenza per non vanificare gli sbocchi occupazionali che sarebbero seguiti all’apertura della cava e dopo che «la procura di Caltanissetta ha condotto indagini da cui è emerso che la società Fassa non era minimamente a conoscenza del passato criminale del signor Pecorino, né tantomeno hanno avuto alcuna intenzione di agevolare Cosa nostra».
«Monte Scalpello è salvo, non finirà sbriciolato e in polvere. Vince il patrimonio culturale siciliano», è il commento di Simona Modeo, presidente di SiciliAntica. Il Tar ha condannato sia la Regione che Fassa a pagare le spese legali dell’associazione.