Schatten der zeit

Titolo: Schatten der zeit (Shadows of time).
Regia, soggetto e sceneggiatura: Florian Gallenberger.
Fotografia: Jurgen Jurges.
Musica: Gert Wilden Jr.
Montaggio: Hansjorg WeiBbrich.
Interpreti: Tannishtha Chatterjee, Prashant Narayanan, Tillotama Shome, Irrfan Khan.
Produzione: Helmut Dietl/Diana Film/fanes Film/CP Medien AG/Mondragon Films.
Origine: Germania 2004.
Durata: 122’.

 

Apertura non del tutto convincnte del programma serale al Teatro Antico dell’edizione ‘05 del TaoFest con la pellicola euro-indiana “Shatten der zeit” (Shawdows of time) firmata dal regista tedesco debuttante (nel lungo) Florian Gallemberger.

 

Nell’India di inizio ‘900 i due bambini Ravi e Masha, venduti come schiavi dai rispettivi genitori ad una fabbrica tessile di tappeti, instaurano l’un con l’altro un profondo legame affettivo. Costretti per motivi diversi a separarsi, nell’arco delle loro intere esistenze si incroceranno, incontreranno ed ameranno brevemente per più e più volte, senza però mai riuscire a realizzare compiutamente il loro profondo rapporto sentimentale. Se la pellicola nella prima parte, cioè quella della tormentata infanzia dei due protagonisti, appare molto ben calibrata e strutturata nel raccontare una realtà di vita molto dura e priva di scorciatoie, la seconda, incentrata sulla maturità del rapporto tra i due personaggi, finisce per cadere velocemente nei classici clichè dei film occidentali di genere. Troppe le sequenze scontate ed eccessivamente melense (dal treno in partenza in un’affolata stazione, ai baci appassionati sotto la pioggia) che non possono non riportare alla memoria film come “Casablanca” ed “Il paziente inglese”. Questa parziale mancanza di originalità finisce inevitabilmente per ridimensionare il valore complessivo dell’opera. Detto questo c’è da aggiungere, però, che il neanche trentatreenne Gallemberger dimostra buona sensibilità e talento dietro la macchimna da presa, visibile soprattutto nel modo in cui racconta con efficacia, accanto al principale filone narrativo, della maturazione di una nazione (quella indiana) che velocemente cerca la via più veloce al progresso occidentale e allo stesso tempo si sforza di non dimenticare la propria identità (bellissime le scene in cui la scritta sull’insegna del negozio di tappeti si allunga man mano che le vendite aumentano). Tema storico assolutamente poco esplorato questo, che certamente per interesse meriterebbe maggiori approfondimenti da parte di tutte le cinematografie. Discreta la fotografia nell’alternaza sintattica dei chiaroscuri, ottima invece la recitazione (in lingua bengalese per la maggior parte) di tutte le coppie protaginiste (da quella più giovane a quella più anziana) nel dare credibilità narrativa allo scorrere temporale ed alla maturazione individuale. Previsto nelle sale italiane a fine Ottombre un film, comunque, da provare.

 

Fonte www.nonsolocinema.com

              


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