Processo omicidio Agata Scuto, per gli assistenti sociali «non era in grado di badare a se stessa»

«Non era autosufficiente, non era in grado di badare a se stessa, era timida e introversa e, solo di rado, stringeva dei rapporti con altre persone». È questa la descrizione che hanno fatto di Agata Scuto due assistenti sociali del villaggio San Giuseppe di Acireale, il centro riabilitativo che la giovane frequentava (e dove era stata per un periodo anche in regime residenziale) prima di scomparire la mattina del 4 giugno del 2012. Da quel momento di lei si è persa ogni traccia e adesso, nel tribunale di Catania, davanti anche alle telecamere del programma Rai Un giorno in pretura, si sta celebrando il processo per omicidio in cui è imputato Rosario Palermo, l’ex compagno della madre della 22enne. Oggi assente in aula per avere rinunciato, l’uomo continua a professarsi innocente. Un procedimento che è stato aperto a distanza di otto anni dalla scomparsa, senza che il corpo della giovane sia mai stato ritrovato. Per l’accusa, l’uomo – difeso dall’avvocato Marco Tringali – l’avrebbe uccisa perché la ragazza sarebbe rimasta incinta di lui. Una gravidanza di cui non esistono prove ma che è stata desunta dalla madre a cui la 22enne, poco prima di scomparire, avrebbe confidato che da due mesi non aveva più il ciclo mestruale e da una frase scritta sul suo diario personale: “Mamma cornuta“. 

Dopo la riapertura del caso, a fare crescere i sospetti su Palermo è stato il fatto che l’uomo «avrebbe cercato di inquinare le prove – avevano spiegato gli inquirenti in giorno del suo arresto – ottenendo da alcuni conoscenti la conferma del suo falso alibi e predisponendo una messa in scena per simulare delle tracce per giustificare il fatto che il giorno della scomparsa della 22enne si era gravemente ferito a una gamba». Mentre erano ancora in vigore le restrizioni dovute alla pandemia legata al Covid-19, Palermo avrebbe cercato di nascondere sull’Etna un tondino di ferro sporco di sangue. A testimoniare oggi in aula, sono stati anche i poliziotti che, all’epoca, avevano trovato l’oggetto di metallo nascosto sotto il tappetino del sedile posteriore della sua auto. Gli agenti hanno ricostruito di averlo fermato dopo una segnalazione ricevuta dagli inquirenti che avevano analizzato le intercettazioni.

Quelle in cui Palermo, in macchina da solo, fa dei monologhi immaginando di essere davanti a un giudice. «Ti prendono e ti danno l’ergastolo», dice inizialmente prima di fantasticare anche su una sua eventuale assoluzione: «Adesso sei libero, lo abbiamo capito che non sei stato tu ma è stato […]». A questo punto, Palermo fa il nome e il cognome di una persona in carne e ossa che conosce. Nello stesso monologo registrato, l’imputato esprime anche il timore che il corpo della ragazza – che per gli inquirenti è stata strangolata e poi bruciata – possa essere ritrovato in un casolare nelle campagne di Pachino. E, durante l’udienza di oggi, è stato il nonno dell’attuale compagna di uno dei fratelli (Gianluca) della vittima a raccontare di avere visto Palermo in una campagna della cittadina della zona sud del Siracusano. «Più di vent’anni fa – ha ricostruito l’anziano che ha ammesso di non sapere leggere – Lo conoscevo solo di vista e, dopo quella volta, non l’ho più incontrato». La prossima udienza, già fissata per la fine del mese, prevede la testimonianza di Sonia Sangiorgi, l’attuale compagna dell’imputato che lo è a sua volta in un procedimento collegato. La donna, con cui Palermo ha iniziato una relazione dopo la fine di quella con la mamma della vittima, è accusata di averlo aiutato a depistare le indagini. Così come una ex, il cui rapporto risale a circa 18 anni fa e da cui sono nati anche due figli.


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