Pd, i millecinquecento giorni da segretario di Raciti «Allargare il partito è stato giusto. Faraone? Sfugge»

«Da oggi cominciamo a costruire il Pd in Sicilia». La frase pronunciata quattro anni fa da Fausto Raciti, poco dopo essere stato eletto segretario regionale del Partito democratico in Sicilia, sarebbe potuta andare bene anche come commento della direzione regionale dei dem tenutasi ieri a Palermo. Tra i presenti, d’altronde, in molti hanno sottolineato l’esigenza di dovere ricompattare le fila per ripartire, ricostruendo il partito da quelle che, anche a volere essere ottimisti, somigliano tanto a delle macerie. A poco meno di 1500 giorni da quelle dichiarazioni, però, l’atmosfera in casa Pd è decisamente diversa, così come diversa è la posizione di chi da allora in Sicilia ne ha tenuto il timone. Per una traversata conclusasi un po’ come quella del Titanic, con l’orchestra a suonare nonostante l’acqua entrasse da tutte le parti. 

Raciti, a risultare assente ieri è stato proprio chi più di altri avrebbe dovuto esserci. Come Davide Faraone, il principale rappresentante dei renziani in Sicilia.
«Non ne farò una malattia. L’ho scoperto ieri, ma l’assenza non mi ha stupito. Anche dopo la sconfitta alle Regionali Faraone non è venuto».

All’ordine del giorno ci sarebbe dovuta essere la riflessione sulle recenti sconfitte.
«Credo che resti forte la necessità di avviare una discussione politica su ciò che è accaduto. Sfuggire in eterno a questo tema è difficile, né io sono disposto a operazioni di camuffamento della realtà. Proprio per questo serve preparare il terreno per il nuovo congresso».

Dietro l’angolo, però, ci sono le Amministrative. Con quale guida ci arriverà il Pd?
«Il mio mandato è finito per naturale scadenza (il 24 febbraio, ndr). Le dimissioni saranno formalizzate quando inizierà il percorso congressuale, ma fino ad allora bisogna capire cosa fare: per questo ho detto che bisogna comprendere se creare un’organizzazione in cui tutti i vertici a livello sia regionale che provinciale, seppure dimissionari, affronteranno le Amministrative oppure aprire subito l’Assemblea del Pd, con la consapevolezza che non sarà facile lavorare contemporaneamente alle elezioni comunali».

È anche il momento dei bilanci. Come giudica questi quattro anni?
«Penso che non siamo riusciti a raggiungere tutti gli obiettivi che ci eravamo dati. Nel 2014, mi sono trovato catapultato in Sicilia, in un momento in cui c’era una tensione fortissima tra il presidente della Regione (Rosario Crocetta, ndr) e parti del Pd. Ho provato ad affrontare questo tema, cercando di unire il partito dandogli una prospettiva di legame con il governo regionale. In questo credo che ci siamo riusciti. Ma ci sono state anche cose che non sono andate bene».

A partire dalle sconfitte alle Regionali, prima, e alle Politiche, dopo.
«A novembre la formula che abbiamo usato è stata insufficiente. Il cosiddetto modello Palermo non ha dato i suoi frutti: un terzo di chi ha votato le nostre liste che ha scelto di votare un altro candidato presidente».

Colpa di Micari?
«No, la buona fede e l’impegno di Fabrizio Micari in quella esperienza non sono in discussione. Quello che non ha funzionato è il modo in cui si è arrivato a quel progetto politico. C’erano tante ipotesi in campo e non si è riusciti a fare sintesi. Oltre al fatto che la scelta di mettere al centro il cosiddetto civismo politico si è rivelata non all’altezza».

E alle Politiche?
«Lì abbiamo subito ancora di più perché, se alle Regionali l’elettore poteva votare il proprio candidato e ogni candidato a sua volta aveva utilità dal lavorare sul proprio consenso, alle Politiche sarebbe servita una dimensione identitaria più forte, che è evidente non si è stati capaci di comunicare».

C’è però chi sostiene che il Pd un’identità, in realtà, non ce l’abbia più. Pentito dell’apertura del partito a chi proveniva da altri lidi?
«Resto dell’idea che l’operazione di allargamento del partito abbia risposto al tentativo di rafforzare lo spazio politico del Pd. L’obiettivo non è mai stato quello di tramutarne il profilo politico e a chi ha aderito abbiamo posto la condizione che riconoscessero il partito e le decisioni che venivano prese».

Poi però gli stessi nuovi arrivati hanno compiuto mosse poco in linea con il partito.
«Azioni come votare Miccichè come presidente dell’Ars ha sostanzialmente significato misconoscere il lavoro del Pd, non c’è dubbio».

Cosa attende il Pd nel prossimo futuro?
«Siamo un partito che ha incassato una sconfitta pesante. E ciò significa che tanto a livello regionale che nazionale il nostro ruolo sarà quello di fare opposizione».

Tirarsi fuori dalla formazione del governo, nel caso di un accordo M5s-Lega che punti a cambiare la legge elettorale e tornare alle urne, non è rischioso?
«Non so se faranno un governo transitorio, ma oggi non credo ci siano condizioni per allearci con le due forze uscite vincitrici».


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