«Siamo orgogliosi del lavoro fatto questa mattina che conclude un lavoro lungo e faticoso, era un debito che la Repubblica aveva nei confronti delle vittime delle stragi del 1992 e del 1993». Sono le parole con cui Maurizio De Lucia, procuratore capo di Palermo, ha aperto la conferenza stampa di questo pomeriggio sull’arresto di Matteo Messina Denaro. Il boss è stato catturato dopo una latitanza durata 30 anni e conclusasi all’interno della clinica privata La Maddalena, nel quartiere San Lorenzo, a Palermo. Il boss stragista era in cura per un tumore al colon sotto il falso nome di Andrea Bonafede.
Insieme a lui è finito in manette il suo autista Giovanni Luppino, un commerciante di olio di Campobello di Mazara, in provincia di Trapani. «Abbiamo acquisito elementi su alcuni aspetti relativi alla salute di Messina Denaro – spiega il generale Pasquale Angelosanto, comandante del Ros dei carabinieri che stamattina ha dato l’annuncio dell’arresto – Abbiamo fatto un lavoro rapido e riservato che ci ha consentito in poche settimane di mettere insieme gli elementi utili a individuare la data di oggi, la stessa in cui il ricercato si sarebbe sottoposto ad accertamenti clinici». Indagini telematiche che sono state svolte fuori dalla Sicilia, attingendo all’archivio delle prenotazioni del servizio sanitario nazionale, e che fino a questa mattina non avevano coinvolto la clinica dove è stato catturato.
A quanto pare il boss era sottoposto alle cure dei medici della struttura da circa 12 mesi, sottoponendosi a due interventi chirurgici. «Matteo Messina Denaro è stato trovato in possesso di un documento d’identità falso con le generalità di Andrea Bonafede», aggiunge Angelosanto. Un nome e cognome che corrispondono a una persona reale ma a cui sul documento era affiancata una foto dell’ormai ex latitante. Non è ancora chiaro se si tratti di un documento falso. «Faremo degli ulteriori accertamenti per verificare», aggiungono gli inquirenti che non lo hanno ancora interrogato. «Solo qualche battuta con gli agenti che lo hanno arrestato». Ben vestito – con tanto di giubbotto di montone – e con al polso un prestigioso orologio della marca Jack Miller. Valore circa 35mila euro. «Da questi elementi – aggiungono gli inquirenti – abbiamo dedotto che le sue condizioni economiche sono tutt’altro che complicate. E ci è perfino sembrato in buona salute e di buon aspetto. Mai avremmo detto che fosse malato». In effetti, stando alle indicazioni fornite dalle cartelle cliniche che sono state sequestrate, le sue condizioni di salute sarebbero compatibili con il carcere. «Ovviamente – sottolineano gli investigatori – anche lì sarà curato come ogni altro cittadino».
«Attraverso una serie di attività tecniche avevamo avuto contezza che il latitante era all’interno della clinica – spiega Lucio Arcidiacono, comandante del Ros di Palermo – In una delle vie, già individuate perché c’era un accesso laterale alla struttura, Matteo Messina Denaro è stato bloccato. Non ha opposto nessuna resistenza e si è subito dichiarato senza fingere l’identità finta. Guardandolo c’era ben poco da verificare perché il volto era quello che ci aspettavamo di trovare». «Non abbiamo trovato un uomo distrutto o di bassa fortuna, era ben curato ma è stato costretto a esporsi a causa delle sue condizioni di salute. Si è affidato a persone del suo contesto territoriale ma ancora siamo in una fase preliminare per accertare la rete di protezione – spiega il magistrato Paolo Guido – La clinica? Non abbiamo elementi per indicare che ci siano complicità dall’interno».
Il fiancheggiatore ha un cognome noto sul fronte giudiziario ma, come spiega la stessa procura, è un incensurato slegato dal contesto mafioso di Campobello di Mazara. Nel 2013, nell’inchiesta Eden proprio sull’ormai ex latitante, venne arrestato il boss Francesco Luppino. Ritenuto vicino a Messina Denaro è stato anche Calogero John Luppino, ex consigliere comunale nel Comune del trapanese con un passato da re delle scommesse online, arrestato nell’ambito dell’indagine MafiaBet. «L’indagine ha due pilastri: le intercettazioni, che sono indispensabili per contrastare la mafia – aggiunge De Luca – L’altro è quello legato al contesto degli smartphone e al fatto che le persone li usano». Negli ultimi dieci anni, nelle inchieste sull’ex latitante effettuate dai carabinieri, sono state eseguite oltre 100 misure cautelari con provvedimenti di sequestro e confische per oltre 150 milioni di euro. Il capitolo investigativo sul boss di Castelvetrano non è però chiuso.
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