Una parlantina veloce e qualche cognome storpiato. In mezzo alcune considerazioni che non lasciano spazio a interpretazioni: «Quando uno era confidente, anche con un vigile urbano, e poteva danneggiare Cosa nostra per me doveva essere ucciso». Parola di Giovanni Brusca, ex capomafia di San Giuseppe Jato, in provincia di Palermo. Dal 1996 collabora con la giustizia dopo che per alcuni decenni, è stato uno dei boia preferiti di Totò Riina. Anni passati tra stragi e centinaia di omicidi, compreso quello di Giuseppe Di Matteo, il bambino sciolto nell’acido dopo essere stato sequestrato. Crimini che il collaboratore riassume davanti la corte d’assise di Catania come «tutti quelli che fanno parte del curriculum di Cosa nostra». Brusca, collegato in video conferenza da una località riservata, è stato chiamato come testimone dal pm Pasquale Pacifico a far luce sull’omicidio di Luigi Ilardo. Cugino del boss Giuseppe Madonia ma soprattutto confidente del colonnello Riccio. Ilardo viene ucciso davanti casa a Catania, la sera del 10 maggio 1996, pochi mesi dopo aver condotto gli uomini del Ros fin dentro il covo di Bernardo Provenzano, nelle campagne di Mezzojuso. Il capo della cupola di Cosa nostra però non viene catturato a causa di una scelta attendista che ha portato alla sbarra il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu.
«Lo conoscevo di nome ma non l’ho mai visto di presenza», è l’esordio di Brusca quando gli viene chiesto di tracciare un profilo dell’ex boss della famiglia mafiosa di Caltanissetta conosciuto con il nome in codice Oriente. Sul conto di Ilardo, secondo la ricostruzione del collaboratore di giustizia, pesavano però sospetti e lamentele tanto da indire all’inizio del 1995 una riunione per trattare l’argomento. Attorno al tavolo di una villetta di Partinico si siedono, oltre a Brusca, il corleonese Leoluca Bagarella e i rappresentanti della famiglia mafiosa di Mussomeli, piccolo centro nel nisseno. «I sospetti erano di sbirritudine», taglia corto il testimone. Lamentele che si aggiungevano a quelle già esternate a Brusca dal catanese Aurelio Quattroluni. Reggente della famiglia mafiosa dei Santapaola dal 1994 al 1996. «Mi disse – spiega l’ex boss palermitano – che era arrivata una richiesta dal carcere di ucciderlo. Ma io ho temporeggiato perché volevo confrontarmi con Provenzano. Qualcosa non mi quadrava». Il progetto tuttavia subisce una sorta di accelerazione e il confidente viene comunque assassinato. «La risposta di Binnu, arrivò qualche giorno dopo l’omicidio. Provenzano si diceva stupito e sorpreso».
Alla sbarra in questo processo, su presunti organizzatori ed esecutori materiali, ci sono Giuseppe Piddu Madonia, Vincenzo Santapaola (classe 1956 ndr), Benedetto Cocimano e Maurizio Zuccaro. Su quest’ultimo si concentrano alcuni passaggi delle rivelazioni di Brusca: «Quattroluni mi disse che l’ordine arrivava da un cognato di Santapaola, un certo Zucchero, che aveva difficoltà motorie». Il ruolo di Quattroluni nell’omicidio è tutto da chiarire. Ad aggiungere ombre su di lui ci ha pensato la vedova Ilardo durante la sua testimonianza, risalente all’inizio del 2015. La donna ha raccontato di «una persona con accento grezzo che la sera dell’omicidio citofonò per ben due volte chiedendo di Gino. Io risposi che era per strada e stava rientrando». Un uomo conosciuto soltanto con il nomignolo con cui il marito era solito appellarlo, ossia il postino. Lo stesso di Quattroluni.
Tra i misteri di questa storia c’è anche quello del furto di alcuni gioielli che vengono trafugati dalla casa di Ilardo. Preziosi riconosciuti dopo alcuni anni dalla moglie grazie a un servizio televisivo riguardante proprio la cattura di Giovanni Brusca. Gli oggetti erano infatti tra le cose ritrovate all’interno del covo nell’Agrigentino, in cui viene catturato il 20 maggio 1996. «Non ricordo di un furto da Ilardo – si giustifica – tra gli oggetti sequestrati c’erano degli orologi che mi vennero regalati da personaggi catanesi come Eugenio Galea ma non saprei da dove provenivano».
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