L’assoluzione di Mario Ciancio: imprenditore «spregiudicato» e «linea editoriale morbida», ma il capo d’imputazione è «evanescente»

Un capo d’imputazione «evanescente» e, in un certo senso, «contraddittorio». Questo il punto di partenza, scelto dalla corte presieduta dal giudice Roberto Passalacqua, nelle conclusioni che hanno portato all’assoluzione, dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa, dell’imprenditore ed editore 92enne Mario Ciancio Sanfilippo. Sotto la lente d’ingrandimento della procura di Catania è finito un arco di tempo vasto, a partire dal 1982. Affari nel mondo dei centri commerciali, e non solo, ma anche una linea editoriale – quella del quotidiano La Sicilia, di cui Ciancio è proprietario ed ex direttore – che sarebbe stata condizionata e «che non avrebbe sottolineato la mafiosità di alcuni personaggi – secondo le accuse – o ne avrebbe taciuto la stessa esistenza fino a quando non è stata accertata dai giudici». Una presunta «messa a disposizione» nei confronti di Cosa nostra durata decenni, secondo le accuse, ma tuttavia «priva di riferimenti a condotte e fatti specifici» in riferimento alla contestazione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, sottolineano i giudici. «Se fosse stata provata questa messa a disposizione – continuano i giudici nelle motivazioni – proprio perché diffusa e permanente nel tempo, avrebbe semmai integrato gli estremi del delitto di partecipazione all’associazione mafiosa».

I riferimenti alla linea editoriale sono riconducibili alla pubblicazione della lettera di Vincenzo Santapaola, figlio del capomafia Nitto, mentre era detenuto al 41bis. Una missiva di autodifesa non autorizzata dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria finita sul giornale senza nessun testo introduttivo. Nello stesso capitolo sulla linea editoriale c’è pure il rifiuto della pubblicazione, sempre su La Sicilia, del necrologio del commissario di polizia Beppe Montana, ucciso dalla mafia in provincia di Palermo il 28 luglio 1985.  I fratelli del commissario, Dario e Gerlando, rappresentati dall’avvocato Goffredo D’Antona, si sono costituiti parte civile nel processo. In questo modo Ciancio ha prestato un contributo a Cosa nostra? Secondo i giudici i rapporti con esponenti mafiosi non sono «pienamente dimostrati né comunque dimostrativi dell’esistenza di un rapporto sinallagmatico dell’imputato con Cosa nostra, tale da produrre vantaggi e utilità per entrambi».

La linea editoriale sarebbe, invece, dimostrativa di una «spiccata inclinazione» di Ciancio ad «adottare soluzioni diplomatiche» per non crearsi inimicizie o alimentare contrasti «sia con i poteri forti, che con le istituzioni e la stessa criminalità organizzata». Un «giornalismo di mera informazione e non d’inchiesta – scrivono i giudici – esercitato con una linea editoriale morbida, omettendo notizie che potessero risultare particolarmente scomode, senza mai schierarsi da una parte o dall’altra. Con l’obiettivo specifico di tutelare esclusivamente i propri personali interessi». Per quanto riguarda i presunti rapporti, almeno secondo i racconti dei collaboratori di giustizia, con i vertici della famiglia mafiosa di Cosa nostra dei Santapaola-Ercolano, la «mera contiguità» così come la «vicinanza» nei confronti di singoli esponenti non rientra nel paradigma del concorso esterno o dell’associazione mafiosa.

Sulla questione centri commerciali e grandi affari, invece, secondo i giudici «non è stata raggiunta la prova della conoscenza da parte di Ciancio dell’interessamento della criminalità organizzata agli stessi». L’imprenditore, inoltre, non avrebbe conosciuto «la mafiosità di alcuni soggetti che in questi affari hanno preso parte a vario titolo». Dimostrata, invece, «l’indebita ingerenza nei confronti della pubblica amministrazione». Grazie al suo potere economico, finanziario e sull’informazione, l’editore è stato spesso in grado di condizionare le scelte delle amministrazioni comunali e regionali. Una «spregiudicata capacità» di determinare gli enti per ciò di cui aveva interesse. Conclusioni che hanno portato i giudici a pronunciare sentenza di assoluzione per la mancata sussistenza del fatto contestatogli e non per insufficienza di prove.


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