C’è una giudice del tribunale di Catania che ha disapplicato il decreto del ministro degli Interni Matteo Piantedosi approvato, con non poche polemiche, dal governo di Giorgia Meloni. Un decreto che prevede il trattenimento dei richiedenti asilo nei centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) e la garanzia finanziaria di 4938 euro che possono versare, per evitare la detenzione, persone provenienti da Paesi considerati «sicuri». La magistrata Iolanda Apostolico ha accolto il ricorso di un migrante di origini tunisine arrivato a Lampedusa il 20 settembre e portato nel centro di Pozzallo (in provincia di Ragusa) aperto pochi giorni fa. Dopo questo, la giudice ha dichiarato illegittimi anche i trattenimenti di altre tre persone nelle stessa condizione giuridica. Per tutti e quattro è stata disposta la liberazione. Subito, il ministro Matteo Piantedosi ha fatto sapere che presenterà ricorso contro la decisione. Una questione che, come sempre accade sul tema delle migrazioni, si è polarizzata sugli schieramenti politici con qualcuno che è arrivato a invocare addirittura la «riforma del sistema giustizia». Per comprendere la vicenda, però, bisognerebbe partire dai paradigmi tecnici. «Ogni giudice è chiamato a interpretare non il decreto ma a valutare se il provvedimento può essere convalidato, se è supportato da norme legittime», spiega a MeridioNews l’avvocato Riccardo Campochiaro che è anche il presidente del Centro Astalli di Catania, la realtà che da oltre vent’anni si occupa di difendere i diritti dei migranti. «Si tratta di questioni su cui si deve valutare caso per caso». Insomma, un altro giudice potrà valutare in modo diverso e arrivare a una decisione differente.
La magistrata – originaria di Cassino (nel Lazio) ma da vent’anni a Catania, arrivata alla sezione civile immigrazione dopo un passato da penalista – ha bollato il decreto del governo come «illegittimo e in contrasto con la normativa europea». Facendo notare un’incompatibilità con il diritto comunitario e con la Costituzione italiana. Nel primo caso, il riferimento è alla Direttiva accoglienza europea del 2013. «Un documento denso di contraddizioni che l’Italia ha deciso di applicare in maniera rigida», commenta il legale. Per esempio, è previsto che durante l’esame della domanda di protezione internazionale, i richiedenti dovrebbero essere alloggiati in «un posto di frontiera o in una zona di transito» e, invece, finiscono nei Cpr. Anche sulla gestione dei rimpatri «dovrebbe esserci una certa gradualità – sottolinea Campochiaro – con l’iniziale attuazione di strumenti meno gravosi», che possono andare dalla certificazione di un domicilio alla presentazione alla polizia giudiziaria. La stessa direttiva accoglienza prevede che può essere ristretto nei Cpr chi non ha un passaporto o non presta la garanzia fideiussoria. «Anche in questo caso – chiarisce l’avvocato – rigidità dall’Italia che chiede 5000 euro». Un cifra che difficilmente può essere sostenuta da un migrante che, se arriva senza documenti, non ha possibilità di aprire un conto corrente. Tra le argomentazioni della giudice viene citato l’ex articolo 13 della Costituzione: «Il richiedente non può essere trattenuto al solo fine di esaminare la sua domanda e il trattenimento deve essere una misura eccezionale e limitativa della libertà personale». Dunque, alla luce di questi principi, per il tribunale etneo dovrebbe essere escluso che la provenienza del richiedente asilo da un Paese considerato sicuro «possa automaticamente privargli di fare ingresso nel territorio italiano per richiedere protezione internazionale». O di dover pagare una cauzione da quasi 5000 euro.
«Basita» di fronte alla decisione della giudice etnea si è detta la presidente del Consiglio Giorgia Meloni: «C’è un pezzo d’Italia che aiuta la migrazione illegale», ha aggiunto assicurando l’impegno del governo «a difendere i confini dello Stato italiano, senza paura». Un post su Facebook in cui giudica «incredibili» le motivazioni della magistrata che «rimette in libertà un immigrato illegale, scagliandosi contro i provvedimenti di un governo democraticamente eletto». E a chiederne conto, come lui stesso ha già dichiarato, sarà il vicepremier Matteo Salvini: «I tribunali sono sacri non possono essere trasformati in sedi della sinistra», ha commentato il leader della Lega che è ancora a processo (la prossima udienza è già fissata per venerdì) per il caso Open Arms, imputato per sequestro di persona e rifiuti di atti d’ufficio quando era al capo del Viminale. Il riferimento del ministro delle Infrastrutture è ad alcuni post pubblicati in passato da Apostolico su Facebook. «Rischio fino a 15 anni di carcere per avere difeso i confini e ridotto drasticamente sbarchi e tragedie in mare – ha aggiunto Salvini – Chi ha la coscienza pulita non si fa intimidire. Ed è con questo spirito che faremo la riforma della Giustizia, con separazione delle carriere e responsabilità civile dei magistrati che sbagliano». Parole dietro cui, per l’avvocato Campochiaro, si cela un doppio rischio: «Sarebbe contrario ai principi di separazione dei poteri. Non siamo in uno stato di polizia e a un giudice non si può togliere il diritto di decidere sul punto. Pericoloso sarebbe anche se la decisione fosse affidata ai giudici di pace, non togati e certamente con meno esperienza».
Salvini parla di «tribunali trasformati in sedi della sinistra», facendo riferimento a contenuti sul profilo social di Apostolico. Chiuso dopo la decisione a conservarne (e pubblicarne) alcuni screenshot è stato Il Giornale. Un post, datato luglio 2018, riguarderebbe la condivisione di una petizione in cui si chiedeva una «mozione di sfiducia» per Salvini, che all’epoca era da poco stato nominato ministro degli Interni. Un altro post della discordia è un articolo, del giugno dello stesso anno, che sarebbe stato ripostato sulla bacheca social in merito alla richiesta di archiviazione della procura di Palermo su Open Arms e Sea Watch. Condivisioni di contenuti su un profilo privato a cui la giudice – 59enne che non è iscritta a nessuna corrente e non risulta abbia mai manifestato posizioni politiche riguardo il suo lavoro – non ha aggiunto nessuna parola di commento. A sollevare contestazioni sono stati anche i like della magistrata alle pagine della ong Open Arms e una gallery dal titolo Moderna deportazione con foto dell’arrivo di un traghetto con a bordo oltre 1300 migranti a Catania. «È gravissimo il fatto che chi ha giudicato il caso abbia manifestato convinzioni politiche contro Salvini e a favore delle politiche immigrazioniste delle ong». È il commento di Sara Kelany, la responsabile immigrazione di Fratelli d’Italia. Il partito di governo che sta valutando con quale strumento intervenire su quella che è stata giudicata una «decisione politica e ideologizzata». O a un «regalo all’immigrazione illegale», come ha sintetizzato il capogruppo di FdI alla Camera Tommaso Foti.
A sostegno di Iolanda Apostolico è intervenuto il presidente della sezione catanese dell’associazione nazionale magistrati (Anm) Alessandro Rizzo esprimendo «una posizione ferma e rigorosa a tutela della collega, persona perbene che ha lavorato nel rispetto delle leggi» e respingendo «con sdegno le accuse a lei rivolte. Il rapporto tra potere esecutivo e giudiziario – sottolinea – andrebbe improntato a ben altre modalità». Del resto, la magistratura si occupa continuamente di questioni che hanno anche significati e ricadute politiche «ma ciò non può legittimare la convinzione che, dietro le decisioni dei giudici, ci siano motivazioni politiche e che la magistratura faccia politica», aggiunge Rizzo criticando i toni usati da Meloni e Salvini. «Se la legge prevede che certi provvedimenti, come quelli relativi alla restrizione della libertà degli individui, sono contestabili – prosegue il presidente dell’Anm – significa che il magistrato è libero di convalidarli o meno. Oppure pensiamo che le decisioni debbano essere tutte a senso unico?».
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