Le estorsioni a tappeto della mafia della Montagna «Si può anche sbagliare porta ma si deve bussare»

«Avvicinabili» e «non avvicinabili». Sono queste le due macrocategorie in cui l’organizzazione mafiosa dell’Agrigentino, disarticolata due giorni fa con l’operazione Montagna, era solita classificare le imprese in tema di «messa a posto», ovvero le richieste estorsive. A fare la differenza sarebbe stata l’accertata propensione dei titolari della ditta a sporgere denuncia. Secondo gli inquirenti, il mandamento ricostituito da Francesco Frangapane avrebbe avuto un controllo capillare in diversi settori economici in tutta l’area montana dell’Agrigentino, in particolare nel mondo delle imprese edilizie e nel nuovo business dell’immigrazione. Poco meno di trenta le ditte che, a vario titolo, avrebbero avuto contatti con Cosa nostra. Fra queste quelle andate a «bussare», quelle avvicinate con velate minacce o pesanti avvertimenti, quelle che hanno denunciato e anche quelle che hanno ceduto alle richieste. Assumere un parente come lavoratore dipendente, cambiare il fornitore del materiale edile, comprare il calcestruzzo dal grossista di riferimento, prendere in affitto i magazzini dove mettere i mezzi dell’impresa, ottenere eventuali sub appalti. L’avvertimento più utilizzato sarebbe stato quello di lasciare una busta di plastica con all’interno una bottiglia di liquido infiammabile e quattro cartucce calibro 12.

Le ramificazioni mafiose avrebbero tentato di infiltrarsi ovunque. Dall’appalto per la realizzazione di un’area di parcheggio a Canalotto di Aidone, in provincia di Enna, finalizzata alla fruizione della Venere di Morgantina, alle aree forestali di Santo Stefano di Quisquina (Agrigento) e Prizzi (Palermo). Fino alla manutenzione del poliambulatorio e della guardia medica di San Biagio Platani. Lunga è la lista nel settore dell’edilizia: la manutenzione straordinaria sulla pavimentazione stradale dell’isola di Lampedusa; quella appaltata dalla Rete Ferroviara Italiana per un sottopasso a San Giovanni Gemini; la soppressione di un passaggio a livello lungo la strada statale 189, nell’ambito della velocizzazione della linea Palermo-Agrigento; l’ampliamento del cimitero di Raffadali e la riqualificazione di alcune aree di San Biagio Platani e del centro storico di Bivona. Le cosche sarebbero state interessate anche all’urbanizzazione delle aree artigianali in contrada Santa Maria a Sciacca, al recupero del vecchio centro storico a Contessa Entellina, in provincia di Palermo, e poi ancora alla realizzazione di un’area attrezzata per punto di sosta di veicoli per il turismo itinerante lungo la strada statale 118. Nelle carte dell’inchiesta si parla pure della riconversione a pista ciclabile extraurbana dell’ex ferrovia Menfi-Fiume Carboi e Porto Palo-Vallone Gurra di Mare e dell’urbanizzazione della zona artigianale e commerciale di Aragona

Gli appetiti dei clan non sarebbero stati sollecitati soltanto dalle grandi opere. Gli inquirenti citano anche normali lavori di adeguamento alle norme di igiene, sicurezza e l’abbattimento delle barriere architettoniche nelle scuole di Bivona o la ristrutturazione dell’istituto comprensivo statale Reina di Chiusa Sclafani, in provincia di Palermo. Discorso simile vale per i lavori di manutenzione straordinaria della scuola elementare e materna e sul completamento di una chiesa a San Biagio Platani.

«Comunque, non chiedo più a nessuno io se è buono o se è tinto. Se è buono viene solo, se è tinto dopo ci vado io». 

A inquinare il sistema economico agrigentino sarebbe stato il «fiore all’occhiello di Cosa nostra siciliana». Così si definivano i presunti boss a capo dei mandamenti che, secondo i magistrati, delle estorsioni a tappeto avevano fatto una pratica consolidata. Acquisendo informazioni sugli appalti ancora prima che le ditte avessero avviato i lavori. «Comunque, non chiedo più a nessuno se è buono o se è tinto (persona difficile da convincere, ndr). Se è buono viene solo, se è tinto dopo ci vado io». È questa la conclusione provvisoria a cui arriva Calogerino Giambrone, ritenuto esponente di vertice della famiglia mafiosa di Cammarata e San Giovanni Gemini. È lui che a un certo punto sembra non essere più propenso a chiedere preventivamente le informazioni sulle imprese, ritenendo più opportuno attendere che fosse l’impresa interessata a presentarsi spontaneamente. In caso contrario «ci devi cafuddare», gli dice un amico, facendo riferimento a danneggiamenti a scopo intimidatorio.

«È che la gente non sa dove andare a bussare». «Comunque uno può sbagliare porta, ma dovrebbe comunque bussare».

E in effetti a volte sarebbero stati gli imprenditori a contattare il gruppo mafioso di riferimento. In un viaggio in macchina, Calogerino Giambrone e Giuseppe Luciano Spoto – presunto reggente della famiglia mafiosa di Bivona e rappresentante pro-tempore del neocostituito mandamento mafioso della Montagna – facevano esplicito riferimento alle difficoltà che un’impresa incontrava quando non sapeva a chi rivolgersi. «È che la gente non sa dove andare a bussare», dice Spoto. Con Giambrone che precisa. «Comunque uno può sbagliare porta, ma dovrebbe comunque bussare». In molti casi, l’intimidazione non si sarebbe manifestata con forme esplicite. Uno degli appartenenti alla famiglia di Favara, Giuseppe Vella, parlando con un imprenditore vincitore di un appalto dice di avere «piacere a fare questo lavoro insieme per dividerci la torta». Sottolineando che di fronte a un eventuale rifiuto ci sarebbe stato chi, come il favarese Giorgio Cavallaro, avrebbe proposto un intervento risolutivo: «È cosa di prenderlo con i cappucci messi». 

Fra le 56 le ordinanze di custodia cautelare emesse dal giudice c’è anche quella riguardante il sindaco di San Biagio Platani, Santo Sabella. Accusato di avere ricevuto per le elezioni il sostegno del locale clan, al quale sarebbe rimasto legato, favorendolo negli appalti in paese.


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