«La montagna va aperta a tutti, specie a chi la frequenta in modo intelligente». Con queste parole Vincenzo Torti, capo della storica associazione, interviene sul blocco degli accessi alla zona sommitale per ragioni di sicurezza. Un garbuglio istituzionale che, come già sostenuto dagli attivisti locali, avrebbe reso il vulcano off-limits
La questione Etna libera è diventata caso nazionale Il presidente generale del Cai: «Ora stop ai divieti»
La «questione Etna» si scopre di portata nazionale, grazie all’argomentare da giurista e al cuore di montanaro dell’avvocato Vincenzo Torti, presidente generale del Club alpino italiano. La visita catanese del capo del sodalizio fondato nel 1863 – legata a una giornata di formazione a palazzo della Cultura – diventa infatti l’occasione giusta per tornare a parlare di limitazioni dell’accesso alle quote sommitali del vulcano. Tasto dolente e complesso, di cui si è discusso, da ultimo, lo scorso luglio: la cima dell’Etna venne riaperta dopo un blocco per motivi di sicurezza che durava dal maggio precedente, sebbene l’eruzione di quel periodo si fosse rapidamente conclusa.
Il Cai, presente nel Catanese con otto sezioni, sceglie così di riallacciarsi alla piattaforma del comitato Etna libera. «La montagna va aperta a tutti, specie a chi sceglie di frequentarla in modo intelligente», ripete in varie sfumature Torti, incontrando i giornalisti. Ragionamento strettamente connesso a quello del coordinamento di associazioni e appassionati del territorio etneo che, negli anni scorsi, aveva lanciato la campagna «contro i divieti». Ovvero il complesso delle procedure che finora, in ordine sparso e a carattere emergenziale, ha regolato la fruizione della vetta del vulcano Unesco. Dapprima era stato l’intervento sostitutivo della Prefettura catanese, poi regolato dal protocollo del 2013 della Protezione civile regionale, a chiudere per lunghi, «ingiustificati» secondo gli attivisti, periodi la zona sommitale dopo il verificarsi di varie eruzioni. Negli ultimi tempi si è infine tentato di armonizzare l’azione della decina di Comuni che si dividono l’Etna in spicchi, ma l’accordo sulle ordinanze dei sindaci si era limitato solo al versante sud. La matassa è comunque rimasta inestricabile: da una parte gli obblighi della tutela dell’incolumità pubblica; dall’altra la voglia di montagna degli appassionati; in mezzo, un sistema di governance monco, parcellizzato fra enti e competenze sovrapposte, che non riesce a decidere contemperando le ragioni di turismo, fruizione e sicurezza.
La soluzione il Cai ce l’ha ben chiara: libertà nella responsabilità. «L’eliminazione del pericolo non esiste sull’Etna e in nessun’altra montagna – spiega il presidente Torti – occorre invece consentire a chi ne ha la capacità e la preparazione di andare in montagna senza divieti, mentre dall’altro lato va costruita una preparazione il più diffusa possibile, evitando così che sul vulcano salgano turisti con tacchi o costume da bagno». Il campo va aperto, dunque, non solo alle escursioni con le guide vulcanologiche, ma anche ad esempio ai maestri del Cai che, nel resto d’Italia, si occupano come concesso dalla legge di escursioni e accompagnamento volontario. «Salire con le guide dev’essere una delle possibilità, non l’unica», aggiunge l’avvocato.
Ma il caso Etna è soprattutto problema di gestione del territorio e del rischio. «Non si può decidere che la montagna è vietata perché è pericolosa», ribadisce Torti citando uno dei pochi casi – «le statistiche sono bassissime, malgrado l’Etna sia vulcano attivo e frequentatissimo» – di incidente mortale in vetta, quello costato la vita a nove turisti nel 1979. «Le motivazioni della sentenza del Tribunale di Catania sulle condanne per quel fatto, poi confermate dalla Cassazione, sono chiare: l’eruzione non è prevedibile e ogni divieto dovrebbe essere circoscritto solo alle fasi di segnali premonitori, parossismo e fine dell’evento eruttivo». Per tutto il resto, secondo il presidente nazionale Cai, dovrebbe invece valere la responsabilità di chi sceglie, liberamente ma con conoscenze, di confrontarsi con l’ambiente naturale. «Altrimenti dovremmo chiudere l’Appennino perché lì ci sono i terremoti, o non avremmo avuto le missioni ai poli o Bonatti che attraversa l’Amazzonia», dice Torti esemplificando. «Non servono divieti, ma uno sforzo culturale per evitare che soprattutto i giovani si perdano la scoperta dell’ambiente montano – conclude – dove il pericolo è oggettivo, ma può essere affrontato con la competenza».