La protesta del testimone dell’omicidio di don Puglisi «Assunti da Regione e lasciati a Roma come appestati»

«Siamo in condizione di potere lasciare la sede di Roma della Regione siciliana in una settimana. Se Crocetta rinsavisse e dicesse di sì alla proposta del Viminale, in pochi giorni noi ce ne andremmo da quell’ufficio». È soltanto l’ultimo atto d’accusa dei 16 testimoni di giustizia che lavorano nella sede romana di mamma Regione. Giuseppe Carini, testimone nel processo per l’omicidio di Padre Pino Puglisi, racconta le vicende che hanno visto protagonisti lui e i suoi colleghi che in quell’ufficio sono stati catapultati dal momento in cui Crocetta ha annunciato la loro assunzione. Da allora stanno praticamente a girarsi i pollici, in una sede troppo piccola per contenerli, in cui mancano i computer e in cui, di fatto, non hanno nulla da fare durante le ore di lavoro. Un emendamento del governo all’ultima Finanziaria avrebbe potuto risolvere il problema, ma senza relazione tecnica non è stato possibile portarlo in Aula. «Avevamo una nostra dignità. Eravamo commercianti, imprenditori, persone brillanti gratificate dalle proprie vite. E ora, noi che non siamo ladri, ci sentiamo come se stessimo rubando qualcosa a qualcuno».

Come si è arrivati a tutto questo?
«Dal momento dell’assunzione, il ministero dell’Interno ha obbligato la Regione a non farci lavorare in tutto il territorio regionale, per cui praticamente non c’era alternativa a Roma».

Ci sarebbe stata anche la sede di Bruxelles.
«Il tipo di professionalità richiesto non rispecchiava i nostri profili, praticamente non c’era alternativa. Per questo si è finiti col concentrarci tutti in un’unica sede. Già era un problema stare tutti lì, ma la situazione è degenerata quando L’Espresso, lo scorso giugno, ha pubblicato la sede in cui lavoravamo».

E da quel momento avete iniziato a chiedere il trasferimento.
«Le leggi regionali vietano di pagare un dipendente che lavori presso un’altra amministrazione pubblica. Abbiamo scritto al presidente Mattarella, ad Alfano, a Crocetta, a Rosi Bindi, a Musumeci, ci siamo rivolti davvero a tutti gli interlocutori istituzionali».

L’emendamento in Finanziaria avrebbe risolto il problema?
«Sì. Ma mancava la relazione tecnica. E lì siamo tutti saltati sulle sedie».

Perché?
«Sono stati presentati due emendamenti che riguardavano i testimoni di giustizia. Il primo, che predisponeva un nuovo finanziamento per l’assunzione di nove ulteriori testimoni di giustizia, era corredato dalla relazione tecnica. Quello che invece dava il via libera ai trasferimenti per noi, non è neanche stato discusso perché non era passato dalle commissioni parlamentari. Ci siamo sentiti presi in giro. Come se non bastasse, io stesso avevo inviato un sms a Crocetta, chiedendogli conferma dell’approvazione della norma, e lui mi disse che era tutto ok. Due ore dopo, l’assessore Lantieri confermava che i trasferimenti non erano stati approvati. Da allora non ho più sentito Crocetta».

Quindi continuate a lavorare a Roma.
«Qui ci sono gravissimi problemi di sicurezza».

Durante le ore lavorative di cosa vi occupate?
«Sulla carta avremmo tutti degli incarichi, ma di fatto non abbiamo nemmeno i computer, le postazioni. Ci costringono a non fare niente per tutto il tempo. Soltanto qualcuno svolge realmente un incarico».

Qual è la soluzione, secondo voi?
«A metà dicembre il Viminale ci ha comunicato di avere trovato una soluzione, perché in una paio di decreti l’argomento era già stato affrontato e i provvedimenti parlano chiaro: se il testimone sottoposto a programma di protezione è un dipendente pubblico, allora può essere trasferito in prossimità della località segreta in cui si sta ricostruendo una vita».

Insomma, così il problema sarebbe risolto.
«In una settimana al massimo. E nell’attesa si potrebbe pensare, come previsto dalla legge, a un’assegnazione temporanea o al telelavoro. Invece ci sono persone che da giugno sono costrette a girarsi i pollici. È davvero mortificante».

Ne avete parlato con Crocetta?
«Personalmente, da quello scambio di sms di cui parlavo prima, non l’ho più sentito, lui si ostina a non volere incontrarci. Eppure abbiamo fatto un percorso insieme, per arrivare a scrivere il testo».

Gli esponenti del governo vanno spesso a Roma per motivi istituzionali. Perché non parlargli di presenza quando sono in sede?
«Da quando siamo stati assunti ci evitano, tutti. Aspettano che non siamo in sede, oppure si chiudono nelle loro stanze e non ci incontrano. Non hanno mai trovato un minuto per parlare con noi, ci fanno sentire degli appestati. Se pensano di trattarci come banderuole da usare per le elezioni, se lo scordino. Noi abbiamo messo in discussione tutto, il nostro lavoro, la nostra vita, i nostri affetti. Il silenzio del presidente Crocetta lo trovo davvero umiliante. Il suo atteggiamento sembra dire “li paghiamo, gli abbiamo dato un lavoro, che altro vogliono?”. Noi non siamo delle prostitute. Ma quando parla di noi, Crocetta sembra parlare di pratiche, non di persone».


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