Proverbi ebraici e siciliani, citazioni auliche e figure retoriche. Persino uno sfogo da nazi-grammar. Sono densi l’ora e 44 minuti del primo pomeriggio del 22 febbraio che Matteo Messina Denaro trascorre coi pubblici ministeri Maurizio De Lucia e Paolo Guido per l’interrogatorio. In quello del giorno prima – che aveva preso «con un po’ di […]
L’interrogatorio di Messina Denaro tra proverbi, filosofia e lo sfogo da nazi-grammar: «Sono un criminale onesto»
Proverbi ebraici e siciliani, citazioni auliche e figure retoriche. Persino uno sfogo da nazi-grammar. Sono densi l’ora e 44 minuti del primo pomeriggio del 22 febbraio che Matteo Messina Denaro trascorre coi pubblici ministeri Maurizio De Lucia e Paolo Guido per l’interrogatorio. In quello del giorno prima – che aveva preso «con un po’ di umorismo» – si era definito un «agricoltore apolide». Questa volta, invece, l’ex primula rossa di Cosa nostra parla di più, si giustifica, racconta i giorni in cui ha scoperto di avere il tumore e torna indietro nel tempo. Ma alle domande cruciali non risponde mai. «Ci saranno cose in cui non rispondo e spiegherò il motivo per cui non voglio rispondere», premette. Ma su una è più che sicuro: «Io non mi farò mai pentito. Non ho più niente da perdere nella vita, anche perché sto perdendo la vita stessa. Però, desidero che mi rimangano i miei principi, giusti o sbagliati che siano».
L’ossimoro di Messina Denaro: «Sono un criminale onesto»
«Dentro la mia testa ho un mio codice comportamentale. Non faccio parte di niente, io sono me stesso, mi definisco un criminale onesto». Un ossimoro, quello utilizzato a effetto da Messina Denaro, per negare la sua appartenenza a un’organizzazione mafiosa «conosciuta solo dai giornali». Un po’ come «”la gelida fiamma” – spiega – facevano sempre questo esempio a scuola». Reminiscenze forse rinfrescate negli anni di intense letture durante la latitanza. E che lui non sia un «uomo d’onore mafioso» lo ripete ogni volta che ne ha l’occasione. «Non lo so, magari ci facevo qualche affare e non sapevo che era Cosa nostra…». Di stragi e omicidi neanche a parlarne, non ne sa nulla. Così come di traffico di droga e di estorsioni. Vacilla, per qualche secondo, solo di fronte alla domanda del pm: «Quindi lei si reputa innocente?». «No, non voglio dire questo – risponde – Sarebbe assurdo». A tanto non può arrivare.
Il rapporto epistolare con Provenzano
E se la mafia Messina Denaro la conosce dai giornali, di Bernardo Provenzano sa soltanto dalla tv. Così dice, sebbene di fronte a una specifica domanda dei pm ammetta di avergli scritto delle lettere, mentre entrambi erano latitanti. «Quando si fa un certo tipo di vita – spiega l’ex latitante – Arrivato a un dato momento ci dobbiamo incontrare. Io latitante accusato di mafia, lui latitante accusato di mafia. Io chiedevo favori a lui e lui chiedeva favori a me». Soldi, soprattutto: sarebbe stato questo l’argomento delle missive tra i due, entrati in contatto con un metodo rodato in certi ambienti. «Se io cerco una persona normale, mi viene difficile. Ma se cerco un latitante come me, ci troviamo. Abbiamo i nostri sistemi». I famosi pizzini, in cui Messina Denaro – da sempre con la necessaria passione per i nomignoli – si sarebbe firmato con lo pseudonimo di Alessio.
Lo sfogo da nazi-grammar
Le rievocazioni storiche lasciano spazio anche a un attacco da nazi-grammar da parte di Messina Denaro: un neologismo coniato per chi ha una certa fissazione per grammatica e pronunce corrette e non perde occasione di farlo notare correggendo gli altri. L’occasione nasce dalle domande sulla sua collocazione geografica al momento dell’arresto di Provenzano. Non è ancora a Campobello di Mazara – la cittadina del Trapanese dove sono stati trovati i suoi covi -, esclude l’intera provincia e pure l’Agrigentino, per soffermarsi su Palermo. Il pm Paolo Guido chiede se abbia trascorso un periodo nel Bélice. Ed è qui che Messina Denaro sbotta: «Mi fa una cortesia? Lei è calabrese? Belìce, per favore». Una puntualizzazione degna della maestrina Hermione di Harry Potter. Impossibile saperne di più sulla sua collocazione. Così come dei modi in cui si sarebbe garantito i favori dei suoi fiancheggiatori. «Cosa ha dato in cambio?», chiedono i pm. «Non c’è questa mentalità – risponde Messina Denaro – Non siamo palermitani, senza avere nulla contro i palermitani». «Per carità, palermitani qua non ce ne sono», si affretta a dire persino De Lucia.
La strategia della caverna contro la tecnologia
Platone, Nietzsche e Freud. La lettura dei volumi di fisolofia ritrovati nei covi sembra aver dato i suoi frutti per Messina Denaro. «Non voglio fare né il superuomo e nemmeno l’arrogante: voi mi avete preso per la mia malattia, senza non mi prendevate». Una frase che merita un’argomentazione all’altezza: «Avevo una tecnica, perché è un mio diritto cercare di restare libero». Ed è da questo bisogno che nasce la teoria del boss di Castelvetrano che contrappone la tecnologia degli inquirenti alla caverna del latitante. «La tecnologia con la caverna non si potranno mai incontrare. E io vivevo da caverna: telefonini non ne avevo. Dicevo: “Se mi metto con la modernità, vado a sbattere”». A farlo cedere ci penserà poi la malattia, il tumore al colon che ha «abbassato di molto le mie difese», spiega. Al punto che si fa fotografare con sigaro e liquore a casa dei suoi vivandieri e si concede anche per un selfie con un medico. «Avevamo un rapporto, ci davamo del tu. Abbracci, bacio, sto per girarmi e mi fa così: “Ce lo facciamo un selfie assieme?”. Che dico no?».
L’albero nascosto in mezzo alla foresta
È il 3 novembre del 2020 quando Messina Denaro scopre il tumore. «Mi restava poco, però mi volevo curare – racconta ai pm – Ho seguito un adagio, un proverbio ebraico: “Se vuoi nascondere un albero, piantalo nella foresta“». È il momento in cui realizza che non può più vivere da latitante. «Non posso fare alla Provenzano, dentro la casupola in campagna con la ricotta e la cicoria. Dovevo uscire, dovevo mettermi in mezzo alle persone». E, così, comincia ad avere una vita sociale, anche piuttosto attiva. «Se dovete arrestare tutte le persone che hanno avuto a che fare con me a Campobello, penso che dovete arrestare da due a tremila persone», ride. Supermercati (noto è l’incontro con la maestra Laura Bonafede), botteghe, ristoranti, giocate a poker. E perfino l’applicazione Bet sul cellulare per le scommesse. «Mi dicevo: “Speriamo che muoio prima, così la chiudiamo qua”. Tanto io non è che ho speranze, sempre morto sono». Quasi una profezia, considerato l’aggravamento repentino delle sue condizioni di salute dopo l’arresto.