Il cammino del Palermo si ferma ad Avellino Rosanero condannati dal palermitano D’Angelo

Game over. Il cammino del Palermo verso un sogno chiamato serie B si ferma sul campo dell’Avellino che nel ritorno del primo turno della fase nazionale dei playoff si è imposto con il risultato di 1-0 centrando la qualificazione, nonostante la sconfitta rimediata con lo stesso punteggio domenica nella gara d’andata al Barbera, in virtù del miglior piazzamento nella regular season che ha garantito ai biancoverdi lo status di testa di serie. E il gusto amaro dell’eliminazione ha per i rosanero anche un sapore di beffa dato che a condannare la compagine di Filippi è stato un palermitano, il centrocampista Sonny D’Angelo, uno dei giustizieri della squadra della sua città anche nel match d’andata al Barbera lo scorso ottobre nel primo segmento del campionato in occasione del successo per 2-0 ottenuto dagli irpini. La rete siglata dal numero 27 biancoverde al 34’ del primo tempo ‘spiega’ perché i rosanero non sono riusciti a portare a termine la loro missione. La mancanza di reattività di Lancini e soprattutto di Marconi che non sono stati in grado di commettere un fallo su Maniero per impedirgli di proseguire la sua corsa verso la linea di fondo e servire il pallone in mezzo per l’accorrente D’Angelo lesto a superare Pelagotti con una conclusione di sinistro è un po’ lo specchio dell’atteggiamento mostrato nell’arco dei 90 minuti dalla squadra. Che, nonostante l’impegno profuso e l’intenzione di lottare con il coltello tra i denti, non ha disputato la partita che avrebbe dovuto fare in termini soprattutto di grinta e furore agonistico.

Perché Marconi è stato così molle? Difficile capire cosa sia passato nella mente del difensore ex Monza. Resta il rammarico accompagnato dalla consapevolezza che stiamo parlando di un giocatore esperto e che, come peraltro ha confermato questa partita, sa fare falli. Anche evitabili e in zone del campo in cui non ce ne sarebbe bisogno. Per la serie: fa fallo quando non c’è motivo ed è troppo morbido, con la complicità di Lancini e anche di Marong che avrebbe potuto tentare un intervento in scivolata per intercettare la traiettoria di passaggio di Maniero, nell’occasione in cui invece avrebbe dovuto interrompere l’azione avversaria. Sono partite, queste, che si giocano anche su questi dettagli e infatti l’Avellino ha vinto proprio perché è stato più bravo (e soprattutto più furbo) dei rosa nei particolari dimostrando, a prescindere dallo spessore di un gruppo composto da elementi comunque di buona qualità come l’attaccante Fella, esperti e strutturati fisicamente, di essere più pronto rispetto al Palermo in questo genere di gare nelle quali malizia e abitudine a confrontarsi con certi contesti svolgono un ruolo determinante. Così come gli episodi. Che in un attimo possono spostare l’asse del match da una parte o dall’altra. Lo ha sperimentato sulla propria pelle la formazione guidata da Filippi consapevole che se Kanouté (ispirato inizialmente nel ruolo di falso nueve e in calo poi nel corso della ripresa nel momento in cui ha agito da esterno destro a tutta fascia in concomitanza con il contemporaneo ingresso in campo di Silipo e Saraniti al posto di Marong e Santana) dopo dieci minuti di gioco non avesse sprecato una buona occasione con una conclusione di sinistro respinta dal portiere o se il suo destro da fuori area ad inizio ripresa fosse sceso un po’ prima piuttosto che colpire la traversa la gara avrebbe potuto prendere un’altra piega.

Si chiamano sliding doors, circostanze che orientano il corso degli eventi scegliendo un indirizzo piuttosto che un altro come successo in occasione delle due nitide palle gol non sfruttate nella ripresa da Valente, vicino alla marcatura al 61′ con un tiro di destro deviato dal portiere in seguito ad un’ottima intuizione del neo-entrato Silipo e nove minuti più tardi con un sinistro a giro, finito alto sopra la traversa, da posizione molto favorevole. Se il numero 14 rosanero fosse stato più concreto la trama sarebbe stata diversa da quella che ha proposto poi il film della partita prima dei titoli di coda e del the end. Una trama, quella effettiva, in linea con i gusti e le aspettative di un Avellino che, a differenza degli ospiti, ha fatto di tutto e di più (con questo ‘di più’ il riferimento è agli escamotage – falli sistematici, proteste, perdite di tempo e pressione continua anche da parte della panchina nei confronti dell’arbitro – già visti nel 2018 a Frosinone nel ritorno della finale per la promozione in A e usati dagli uomini di Braglia per incanalare la sfida su determinati binari) per raggiungere l’obiettivo prefissato. Anche il Palermo, attraverso soprattutto gli spunti individuali piuttosto che gli effetti di una manovra che si è sviluppata molto spesso per vie orizzontali e con troppa timidezza specialmente nella prima porzione dell’incontro, ci ha provato. La differenza, sostanziale, consiste nel fatto che gli irpini (che alla ricerca di energie positive a ridosso del match si sono affidati anche alla religione tra pellegrinaggio della squadra al Santuario di Montevergine e benedizione del campo del Partenio-Lombardi da parte di Padre Giacinto, padre spirituale del club) lo hanno fatto con maggiore intensità e convinzione.


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