Dalla polvere pulita di Gangi a quella di oggi Per ricordarci che la vergogna non è nostra 

Per capire cosa significa essere tifosi del Catania, forse oggi servirebbe sfogliare un vecchio album di fotografie. Senza cercare subito le immagini di momenti di una gloria ancora recente. Ma soffermandosi un attimo a odorare la polvere che, in anni un po’ più lontani, abbiamo dovuto a lungo respirare. La polvere di Gangi, per esempio: un paesino delle Madonie dove, giusto vent’anni fa, il Catania conquistava la promozione in serie C2. Senza che nessuno immaginasse ancora che, da lì, sarebbe partita la strada che ci avrebbe portato fino a otto anni di serie A.

Era una polvere amara, quella di Gangi. Perché nelle serie inferiori, nelle categorie del calcio dilettantistico, il Catania c’era rotolato per l’opaca volontà dei vertici del calcio. Che avevano applicato un rigore mai visto prima (e direi nemmeno dopo) a un veniale ritardo negli adempimenti fiscali. Ma era, proprio per questo, una polvere pulita: perché da quegli infimi campionati, in cui erano finiti senza giustizia, i rossazzurri stavano cominciando a risalire con le proprie forze. Senza la scorciatoia di un titolo sportivo acquistato a Lentini; senza gli acrobatici salti di categoria di cui, anni dopo, avrebbe per esempio beneficiato la Fiorentina; senza le indulgenti rateizzazioni fiscali che, in anni ancor più recenti, avrebbero salvato (per esempio) la Lazio. Senza, insomma, quei discutibili santi in paradiso che nel calcio ti permettono spesso di avere ragione. Ma soltanto quella ragione che appartiene ai forti.

Era una polvere pulita, quella di Gangi. Ed era, quello dei campionati minori e infimi che fummo allora costretti a scalare, un inferno che oggi, a riguardarlo, ci sembra perfino bello. Al contrario di quella caligine che ci soffoca oggi, a leggere e ascoltare le intercettazioni per cui è finita agli arresti la dirigenza del Catania. E che ci fa quasi dimenticare una storia sportiva difficile, spesso amara, a volte tragica. Eppure bella. Bella perché vissuta per decenni, ostinatamente, dalla parte più affascinante. E cioè dalla parte del torto, in un calcio in cui per avere ragione dovevi comportarti da Matarrese, o da Carraro, o da Moggi.

E allora può servirci guardare un’altra foto, più recente, che può farci capire da dove veniamo e dove siamo finiti. Una foto che ritrae il portiere della Juventus, Buffon, a terra dopo un gol subito. E il centravanti del Catania, Bergessio, che corre verso il centrocampo per festeggiare quello stesso gol. Corre come corre il guardalinee che, senza alcun dubbio, quel gol ha deciso di convalidarlo. Senonché, un attimo dopo quello scatto – lo ricordano tutti – si sarebbe consumata una delle farse più squallide che la storia del calcio italiano ricordi. Il guardalinee fu preso bullescamente d’assedio dalla panchina juventina. E l’arbitro, invece di espellere i bulli, si fece docilmente convincere ad annullare il gol. In seguito ne convalidò anche uno, irregolare, della Juve, facendole vincere scandalosamente la partita. Fu un’ingiustizia che fece il giro del mondo. Al punto che i bookmakers irlandesi, a riprova dello scandalo, pagarono come vincitori coloro che avevano scommesso sulla vittoria dei rossazzurri. Riconoscendo, per una volta, che il torto sa essere a volte più giusto della ragione. O meglio di un certo modo di aver ragione.

Oggi anche quella foto – una foto nitida, solare – scompare sotto la polvere di cui la ricoprono Pulvirenti, Delli Carri, Cosentino e gli altri signori finiti agli arresti domiciliari. E stavolta è una polvere grassa, sudicia, appiccicosa. Una polvere che ci sembra molto più difficile da soffiare via di quanto lo fosse quella di Gangi. E che non andrebbe via nemmeno se Pulvirenti, Cosentino e Delli Carri riuscissero a farsi assolvere in tribunale. Nemmeno se i loro avvocati riuscissero a trovare un modo per far finire in nulla il processo (e perché non potrebbero, se ce l’hanno fatta quelli di Moggi?); se non addirittura una spiegazione plausibile a tutto quello sgangherato conversare al telefono di udienze in tribunale e di orari ferroviari.

Non se ne andrebbe via comunque, la polvere che sporca i colori della squadra rossazzurra. Perché non è da oggi, ma da due anni almeno, che essa ha cominciato a incrostarli. Almeno da quando Pulvirenti ha affidato ogni potere a un ex procuratore di calciatori in plateale conflitto di interessi: sol che si pensi al fatto che, per ingaggiare diversi suoi assistiti, la società rossazzurra ha speso fior di quattrini avendone spesso in cambio comportamenti sportivi – e anche disciplinari – da far vergogna. Ci è caduta addosso, la polvere, almeno da quando la società ha pensato di passare dalla parte della ragione, affidandosi alle cure della potente Gea di Alessandro Moggi. Il quale, sia chiaro, con l’inchiesta sulle partite comprate non c’entra niente. Ma che ha avuto sufficiente potere, per dirne una, per immolare un discreto allenatore (Sannino) sull’altare di un disastroso preparatore atletico (Ventrone). A riprova del fatto che la gestione societaria ha avuto priorità diverse da quella di condurre la squadra dove i tifosi speravano che andasse.

E se n’è incrostata ancora, di polvere, per la precisa scelta della società di aprire le porte ai fondi di investimento. Il che equivale ancora una volta ad assoggettare la gestione della società a ingranaggi finanziari invisibili e non per forza conciliabili con ciò che i tifosi chiedono dalla loro squadra di calcio. E, per questo, tutt’altro che rassicuranti.

Due anni almeno di polvere, dunque, rovesciata su una bella storia sportiva. E in cambio di cosa, poi? Una retrocessione in serie B, una quasi retrocessione in Lega Pro e, da oggi, la vergogna dell’ultimo osceno atto di questa bruttissima commedia. A questo punto, ad esser sinceri, del destino giudiziario di Pulvirenti, Cosentino e compagnia ci interessa ben poco. Poiché, per potersi togliere di dosso tanta polvere, il Catania deve per forza ricominciare senza di loro. Anche se dovesse farlo da qualche serie minore. Da qualcuno di quei campionati in cui rischiamo di essere retrocessi.

Al limite, magari, potremmo comprarcelo noi, qualche pezzo di società. O almeno una parte di essa. Con un piccolo gruzzolo di azioni per ogni tifoso. Non dico certo per controllarla realmente (sarebbe utopistico, lo so). Ma per dare concretezza economica a una arcana eppure evidente realtà del calcio: e cioè che una squadra significa sempre molto di più del suo patrimonio, del suo parco giocatori, della società che la gestisce e ne detiene il titolo sportivo. Per ricordare a noi stessi che il Catania non appartiene a Pulvirenti e a Cosentino, come non apparteneva a nessuno dei dirigenti, buoni e cattivi, che li hanno preceduti. Per ricordarci infine che non dobbiamo essere noi – nemmeno in un giorno come questo, tantomeno in un giorno come questo – a vergognarci del fatto che quella squadra, proprio quella, sia la nostra. Né a sentire l’insensato desiderio, alla domenica, di metterci a sventolare qualche altra bandiera.


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