Caso Scieri, ecco perché sono stati assolti i tre imputati Mancano le prove «al di là di ogni ragionevole dubbio»

Sessantadue pagine con cui il giudice per l’udienza preliminare Pietro Murano ha motivato la sentenza con cui ha assolto, per non avere commesso il fatto, il sottufficiale dell’esercito Andrea Antico, accusato dell’omicidio volontario aggravato del parà siracusano Emanuele Scieri, e gli ex ufficiali della Folgore Enrico Celentano e Salvatore Romondia accusati di favoreggiamento e scagionati con la formula perché il fatto non sussiste. Tre assoluzioni che adesso sono sul tavolo del procuratore capo di Pisa Alessandro Crimi che sta valutando di impugnarle. Sono stati invece rinviati a giudizio i due ex caporali Alessandro Panella e Luigi Zabara e il processo con il rito ordinario inizierà ad aprile. La sentenza parte dalla ricostruzione degli orari e delle ultime ore di vita del 26enne trovato morto il 16 agosto del 1999 sotto la torre di asciugatura dei paracadute all’interno della caserma Gamerra di Pisa, la sede del Centro addestramento paracadutismo. Dove emerge «il clima di nonnismo e gli atteggiamenti dispotici di alcuni caporali».

Per Antico – per cui la procura aveva chiesto la condanna a 18 anni – non è stata raggiunta «oltre ogni ragionevole dubbio, la prova della sua partecipazione al fatto», scrive nella sentenza il gup per cui, anche a causa del lungo lasso di tempo trascorso, permangono dei dubbi: primo fra tutti la possibilità di affermare la sua presenza nella caserma la sera del 13 agosto del 1999. Nel foglio delle presenze, Antico risulta in licenza breve dal giorno prima. Sentito nel marzo del 2000 dai carabinieri di Pisa, aveva raccontato di essere andato via dalla caserma alle 16.30 del 12 agosto per tornare a casa dei genitori e di avere fatto rientro la sera del 19 agosto. E aveva anche dichiarato di non avere mai conosciuto Scieri. Dalle intercettazioni si evince che con il padre e la madre avrebbe discusso di cercare documenti (per esempio i biglietti del treno) per dimostrare il suo rientro a casa. I documenti non sono stati trovati ma il giudice scrive che sarebbe stato «davvero irragionevole il comportamento dell’imputato e dei suoi familiari impegnati in un’inutile ricerca di prove che lo collocassero a Casarano». Il paese del Leccese dove vivono i suoi e dove è stato accertato un prelievo bancomat di 50mila lire effettuato il 15 agosto. Dunque, come si legge nella sentenza, «risulta sufficientemente provato» che abbia trascorso il Ferragosto in Puglia e lì sarebbe rimasto almeno fino al 18 agosto, giorno in cui è stato fermato per strada dai carabinieri.

A lasciare al gup dubbi su orari, presenze ed episodi sarebbe stato anche il racconto fatto da un testimone chiave, l’ex commilitone Alessandro Meucci. «L’elaborazione mnemonica è inaffidabile su alcune circostanze», scrive Murano secondo cui la ricostruzione sarebbe in parte inattendibile anche perché Meucci sarebbe «affetto da un atteggiamento rancoroso sia nei confronti degli imputati» da cui in precedenza aveva subito atti di prevaricazione «sia nei confronti dell’istituzione militare dalla quale era stato escluso malgrado le sue ambizioni di rimanere nell’esercito». Nessun intento di vendetta ma, stando alle conclusioni del gup, la rivelazione tardiva di Meucci «è apparsa il frutto di una elaborazione sofferta a cui pervenne dopo ripetute sollecitazioni che facevano leva sulla sua resistenza alla rievocazione del ricordo di eventi dolorosi». Che in effetti, già in precedenza, aveva raccontato alla sua fidanzata che era andata in caserma a sporgere denuncia. Di servizio come piantone alla camerate la sera dell’omicidio, è proprio Meucci ad avere raccontato di avere visto rientrare Panella, Antico e Zabara dopo il contrappello. «Erano molto agitati, terrorizzati, parlottavano tra sé e sudavano freddo. Sentii distintamente la frase “l’abbiamo fatta grossa“». Quando Meucci si sarebbe avvicinato per chiedere se ci fossero dei problemi, Panella gli avrebbe risposto: «Fatti i cazzi tuoi» e un altro lo avrebbe minacciato: «Guarda che se parli ti ammazzo». Incontrati i tre in caserma nel tardo pomeriggio del 14 agosto ha riferito di avere sento l’espressione «è caduto» e Zabara dire a uno degli altri due: «Stavolta hai esagerato». 

Tra la morte di Scieri e il ritrovamento del suo corpo passano tre giorni durante i quali per l’accusa sarebbero state compiute delle azioni «allo specifico scopo di nascondere la morte del militare persino da parte dei massimi gradi della gerarchia». Azioni che il giudice descrive come «una sorta di collettiva solidarietà, dimostrativa di una volontà di accettazione del fenomeno del nonnismo volta nel contempo a proteggere gli autori del fatto criminoso». L’allora generale della Folgore la sera del 13, in orario quasi corrispondente a quello della morte di Scieri, si trovava a Pisa. Per l’accusa per concordare con il colonnello Corradi le strategie da seguire dopo l’omicidio; un’ipotesi che è «del tutto ipotetica e non provata» per il gup convinto anche del fatto che «nessun vantaggio sarebbe derivato da un ritardato rinvenimento del corpo né alla catena di comando né all’immagine della Folgore». Insomma, l’ipotesi accusatoria per cui Celentano avesse ricevuto subito la notizia della morte di Scieri «non può dirsi provata». Anche se il presupposto che l’intera catena di comando fosse a conoscenza già prima della morte di Scieri si basa sul fatto che dopo la scoperta del cadavere nessuno parlò con nessuno.

All’aiutante maggiore dell’epoca viene contestata una telefonata fatta dal proprio ufficio a casa di Panella – che era in licenza a casa dei genitori – alle 15.35 del 16 agosto, subito dopo il ritrovamento del cadavere di Scieri. Una chiamata che dura 199 secondi. Lui ha dichiarato di non conoscere Panella e di non avere avuto, quindi, nessun motivo per chiamarlo. Inoltre, «non è risultato che l’ufficio fosse inaccessibile ad altri soggetti». In pratica, non c’è la prova che a effettuare quella chiamata sia stato proprio Romondia. Ma anche fosse stato lui, scrive il gup, «risulta davvero arduo immaginare come quella conversazione con l’autore dell’omicidio, il cui contenuto non poteva essere diverso dalla mera informazione del reperimento del cadavere, potesse dare idoneo contributo alla realizzazione dell’effetto di eludere le investigazioni». 

Leggi il dossier di MeridioNews sul caso Lele Scieri


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