Da Napoli alla Sicilia, la caduta dell’imprenditore Falco Paladino antiracket chiamava maestro l’uomo dei clan

«Le infiltrazioni mafiose nel sistema dello Stato sono il cancro che il grande Giovanni Falcone combatteva». Meno di un mese fa, Gianpiero Falco lanciava un appello a magistratura e presidente della Repubblica affinché si trovasse una soluzione al «caos infinito» causato dal Covid-19. Richieste non nuove per uno che, da anni, indossa le vesti dell’antimafia. Ieri, però, al 55enne è stata sospesa la possibilità di fare impresa. La decisione è stata presa dal tribunale di Caltanissetta. «Sedicente paladino della legalità», lo definisce nell’ordinanza di custodia cautelare Graziella Luparello, giudice a cui è già toccato l’onere di smontare un’altra impostura eretta sull’altare dell’antimafia.

Nell’inchiesta sulla presunta bancarotta causata dagli imprenditori che hanno gestito i consorzi che si sono alternati nei lavori al tribunale di Caltanissetta e non solo, quella di Falco è la figura che spicca più di tutti. Nella primavera 2013, è il suo il volto nuovo di una storia che, per il resto, si era già vista tante volte e che, secondo pm e uomini della Dia, era destinata a ripetersi chissà per quanto: imprese che, dopo avere acquisito lavori, venivano fatte fallire lasciando i debiti per strada e trasferendo alle nuove creature soltanto i rami produttivi. Un meccanismo che, per la giudice, sarebbe stato frutto di una «programmazione ingegneristica».

I personaggi
In questa vicenda protrattasi quasi per un decennio sono tanti i protagonisti: dai fratelli nisseni Giacomo e Michele Iraci Cappuccinello ai catanesi Angelo e Fabio Romano, e poi i messinesi Giuseppe Micali e Carlo Giunta, e il sancataldese Aldo La Marca. A loro si aggiunge un nome più noto alle cronache, quello di Francesco Scirocco, 55enne di Gioiosa Marea già condannato per concorso esterno e ritenuto eminenza grigia della criminalità organizzata. Grazie alle doti imprenditoriali e alle conoscenze nel mondo degli appalti che, secondo più di un collaboratore di giustizia, avrebbe messo a disposizione delle famiglie dei Barcellonesi, dei Bontempo Scavo e del gruppo Carcione

Mafia c’è, mafia non c’è
In questa inchiesta la mafia non c’è. O meglio, il reato previsto dall’articolo 416 bis del codice penale non trova posto nelle richieste della procura di Caltanissetta. Nonostante ciò, nell’ordinanza siglata dalla gip alla mafia sembra spettare il ruolo del convitato di pietra. «Non si può prescindere dalla sua trattazione – scrive Luparello, parlando delle ipotesi di infiltrazione dei clan nelle imprese oggetto delle indagini – in quanto tassello storico fondamentale nella complessiva ricostruzione degli avvenimenti». A suffragio di questa tesi, la gip mette giù una serie di elementi: dalle parentele degli Iraci con persone che sarebbero state legate al boss Piddu Madonia e all’uomo d’onore Pino Calandra alla presenza percettibilissima di Scirocco. Quest’ultimo sarebbe stato la mente raffinata che avrebbe fatto da suggeritore e cofinanziatore occulto di alcuni lavori che il consorzio Co.Ro.Im si era aggiudicato al Nord da Autostrade per l’Italia

Il ribasso monstre e il ruolo del consorzio Co.Ro.Im
A vincere, nel 2012, la gara indetta dal Provveditorato alle opere pubbliche per l’ampliamento del palazzo di giustizia fu il consorzio Co.Ro.Im. Fondamentale per l’aggiudicazione si rivelò il ribasso del 41,73 per cento. Una percentuale altissima che, tuttavia, per la commissione di gara non era anomala «nel suo complesso». Nella realtà, secondo gli inquirenti, quei lavori sarebbero spettati esclusivamente agli Iraci con la loro Gmi Strutture, aderente al consorzio e che a suo tempo aveva beneficiato del fallimento di un’altra società di famiglia, la Impreter. «Dovevano essere i fratelli Iraci a eseguire i lavori e non altri imprenditori, e ciò probabilmente in forza di un più ampio accordo criminale di natura spartitoria degli appalti in Sicilia», scrive la gip. Pochi anni dopo anche il destino del consorzio sembra segnato. È la fine del gennaio 2014, quando viene dichiarato il fallimento di Co.Ro.Im. Nei mesi precedenti, però, qualcosa era successo ed è in quel momento che appare Gianpiero Falco.

Il battesimo di Virgilio e la giostra riparte
La primavera precedente, il gruppo di imprenditori aveva dato vita a un nuovo consorzio dal nome epico: Virgilio. Dentro c’erano tutti: gli Iraci, i Romano ma anche il nuovo acquisto Gianpiero Falco. Il napoletano va a occupare la sedia di presidente del consiglio d’amministrazione, forte di un’immagine legata a doppio filo alla legalità. Il 55enne, infatti, è iscritto alla Federazione antiracket italiana. Tra i primi passi importanti della stagione targata Falco, c’è la stipula di un contratto d’affitto di un ramo d’azienda del Co.Ro.Im. La firma viene messa due mesi prima del fallimento di quest’ultimo e prevede il passaggio degli appalti a Virgilio. L’escamotage successivamente sembra essere messo a rischio dalla revoca, prevista dalla legge, dell’accordo da parte del tribunale, ma è soltanto uno spavento: Virgilio sarà l’unico pretendente a partecipare alla procedura competitiva per aggiudicarsi il portafoglio di lavori lasciato da Co.Ro.Im.

L’incontro con il maestro Scirocco e l’accesso allo Sdi
Le attività di Virgilio vanno avanti tra alti e bassi. Stando alla ricostruzione degli inquirenti, con il passare del tempo l’eccessivo protagonismo degli Iraci avrebbero iniziato a indispettire Falco, fino al punto di portarlo a immaginare un’estromissione dei nisseni dal consorzio. Idea che si tramuta in realtà, ma non prima che sulla scena irrompa Francesco Scirocco. I due si conoscono per la prima volta il 31 marzo 2015, quattro giorni dopo che il messinese era uscito dal carcere. Per scadenza dei termini di custodia cautelare, ma anche in concomitanza con la condanna in primo grado (nel 2017 confermata in appello) a sette anni per concorso esterno. Dalle carte dell’inchiesta si direbbe che tra i due la scintilla sia scattata subito: «Gianpiero, tu sei una persona che ha messo secondo legge a posto tutte le carte», ricostruisce Falco, prendendo quelle parole come un complimento. L’imprenditore napoletano a sua volta non disdegna di tessere le lodi dell’altro. «Ho parlato con il maestro, che è un grande e mi ha dato dei consigli», dice in riferimento alle modalità con cui estromettere dal Virgilio gli Iraci. 

Gli investigatori della Dia hanno monitorato per lungo tempo i contatti tra Falco e Scirocco, notando che in più di un’occasione il primo non esitava a incontrare il messinese a Gioiosa Marea. Il centro dove doveva soggiornare per disposizione del tribunale perché ritenuto socialmente pericoloso. «L’amico che tu sai chi è, quello lì di Messina – commenta un giorno Falco – è una brava persona, quello che ha avuto quei problemi». A fronte di questo rapporto, che in futuro avrebbe portato Scirocco a essere formalmente assunto dal consorzio Virgilio, l’imprenditore napoletano accompagna anche comportamenti di altra natura. Come quando avrebbe chiesto a un carabiniere di fare un accesso allo Sdi, la banca dati a disposizione delle forze dell’ordine. «Se mi conferma che è tutto a posto», dice al telefono alludendo alla posizione di Scirocco. Tuttavia, per la gip, si sarebbe trattato soltanto dell’ennesima finzione in quanto Falco era perfettamente a conoscenza della situazione giudiziaria di Scirocco. «Uaglio’, io faccio parte dell’antiracket! Io so’ na persona perbene», è il mantra. 

Le triangolazioni e le relazioni di alto livello
Per la giudice Graziella Luparello, quella di Falco è soltanto una pantomima. «Era perfettamente consapevole di essere stato reclutato quale uomo della provvidenza, in grado di restituire al consorzio, grazie al suo apparente lindore criminale – si legge nelle carte dell’inchiesta – affidabilità legalitaria e credibilità bancaria». Per la gip, l’ingresso nella compagine societaria avrebbe avuto l’effetto di «trasformare il sodalizio tra mafia e impresa in una triplice alleanza, in cui accanto alla mafia siede I’asserita antimafia, in grado di assicurare, alla stregua del cavallo di Troia, I’infiltrazione di appartenenti alla criminalità mafiosa nientemeno che nel palazzo di giustizia nisseno».

Definito il «demiurgo dell’evoluzione darwiniana dello storico rapporto mafia-appalti», Falco avrebbe vantato conoscenze anche ad alto livello istituzionale. Una, in tal senso, gli sarebbe derivata dall’essere fratello (l’uomo non è coinvolto nell’inchiesta, ndr) di Maurizio Falco, oggi prefetto di Piacenza e all’epoca funzionario al Viminale, quando al capo del ministero c’era Marco Minniti. Agli atti dell’indagine è finita anche una conversazione in cui Maurizio Falco, parlando con il fratello, si lamenta pesantemente di un ingegnere dipendente del Provveditorato alle opere pubbliche, colpevole di avere rallentato una procedura. A riportare alla calma il fratello maggiore è l’imprenditore: «Mauri’, metti in difficoltà a me», gli dice. La richiesta, per la gip, è figlia della consapevolezza che quell’ingegnere aveva nell’iter dell’appalto a Caltanissetta. 


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