Gela e le promesse inevase del protocollo d’intesa  Il rilancio industriale di Eni passa dalle trivellazioni

Sul sito dell’Eni la notizia dell’avvio della raffineria green di Gela occupava ieri tutta la homepageAlla sala mensa dell’ex stabilimento petrolchimico era presente una fetta trasversale di politica regionale, dall’assessore regionale Alberto Pierobon al sindaco Lucio Greco. In pochi però hanno fatto notare che «il più innovativo impianto per la produzione di biocarburanti in Europa», così come definito dal cane a sei zampe, è partito in ritardo di oltre due anni rispetto ai piani previsti dal protocollo d’intesa del 6 novembre 2014firmato al Mise dall’azienda e dalle istituzioni (insieme ai sindacati) dopo mesi di proteste operaie e trattative politiche a seguito della scelta dell’azienda di chiudere il ciclo della raffinazione a Gela.

E se perfino Francesco Franchi, presidente della Raffineria Gela, ha dovuto ammettere ieri che «di quel protocollo è stata realizzata solo una minima parte», a che punto è la tanto sbandierata riconversione industriale a quasi cinque anni dalla firma romana? A giugno è stato avviato l’impianto Steam Reforming, alimentato a idrogeno e fondamentale per il trattamento degli oli esausti. Peccato che intanto la green refinery verrà alimentata almeno per i primi mesi dall’olio di palma, proveniente dalla foreste dell’Indonesia. Quando il dirigente del cane a sei zampe Pino Ricci afferma che «contiamo di diventare Palm Oil Free entro il primo trimestre del 2020» viene allora da chiedersi perché avviare un impianto con una certa alimentazione per poi interromperla dopo appena sei mesi. Dubbi che tornano anche in merito agli altri punti di quel protocollo d’intesa che sono rimasti in gran parte inevasi.

L’eccezione in questo senso è il progetto pilota waste to fuel, pronto a produrre bio olio (70 chili al giorno, una quantità non certo notevole per un’azienda come Eni) dalla riconversione dei rifiuti organici (provenienti però da Ragusa e non da Gela). Resta ad esempio bloccato il progetto guayule, di Versalis (la consociata di Eni che si occupa di chimica e plastiche), per la «produzione di lattici naturali, gomma dry e resine partendo dalla pianta del guayule con lo sviluppo della filiera agricola». Al momento le coltivazioni sperimentali di Barcellona Pozzo di Gotto, Capo d’Orlando e Cammarata non hanno dato i risultati sperati – complici le precipitazioni copiose del 2017 e quelle ancora più abbondanti del 2018. Nei suoi documenti Eni si limita a definirlo «un progetto vivo» ma non indica tempistiche e modalità.

Ben più grave per Eni è lo stallo attorno al progetto Argo Cassiopea, ovvero le vecchie trivellazioni sulle quali la multinazionale energetica puntava maggiormente nel 2014, visto che di 2,2 miliardi di euro indicati nel protocollo d’intesa ben 1,8 miliardi erano dedicati allo sviluppo dei giacimenti a mare tra Gela e Licata e alla costruzione di una piattaforma petrolifera che si poi è trasformata in un oleodotto lungo 60 chilometri per condurre il metano a terra (e da lì distribuirlo alla rete nazionale attraverso Snam). Eni in questo caso promette che tutto verrà realizzato entro il 2021 – a sette anni di distanza dal protocollo d’intesa e con almeno tre anni di ritardo rispetto alle prime intenzioni – ma la sensazione è che anche in questo caso la scadenza difficilmente verrà rispettata.

Al momento, infatti, all’azienda non è stata concessa la necessaria proroga della valutazione d’impatto ambientale che era stata rilasciata nel 2017. Dopo il grido d’allarme congiunto di politica e sindacati, il ministero dei Beni culturali ha emesso il proprio parere favorevole ma si prevedono ancora tempi abbastanza lunghi per il rilascio della proroga. Ed Eni ha posto come scadenza il prossimo 15 ottobre, quando scadranno i bandi stipulati dal cane a sei zampe con le aziende committenti per la realizzazione della base a gas. L’investimento insomma è ancora in bilico

Nonostante il quadro incerto alla scorsa assemblea degli azionisti, tenutasi a Roma il 14 maggio, l’amministratore delegato Claudio Descalzi aveva definito il sito gelese come «il più grande polo tecnologico dell’Eni in Italia». Che faceva guardare a un significativo cambio di rotta per una città che intanto, a luglio, aveva fatto per l’ennesima volta i conti con la presenza industriale attraverso la quinta edizione del rapporto Sentieri, disponibile sul sito dell’Istituto superiore di sanità, che ha segnalato come a Gela ci sia «un eccesso di patologia, rispetto alla media regionale, quali tumore allo stomaco, al colon, all’apparato respiratorio, con alti profili di mortalità e ospedalizzazione; malformazioni congenite all’apparato urinario e genitale; si riscontra, inoltre, un eccesso di rischio di patologie neoplastiche in età pediatrica con una incidenza di tre volte l’atteso».


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