Una vita errabonda tra Usa, Svizzera e Italia: il professionista siciliano si racconta a Palazzo Bonocore, dove fino al 24 settembre si possono ammirare gli scatti del più celebre concorso di fotogiornalismo al mondo. «Quando sono tornato a Palermo ho trovato solo porte chiuse»
Al World Press Photo arriva il fotografo Gianni Cipriano «Ogni limite è uno stimolo, sono tornato da New York»
«Fotografare Renzi senza una smorfia è veramente complicato». Più che una battuta è constatazione, ma Gianni Cipriano ci mette in più un sorriso timido. E il suo lavoro da fotografo in fondo è tutto qui: caustici e sensibili allo stesso tempo, i suoi scatti in bianco nero sono stati mostrati ieri durante la pubblic lecture che si è tenuta a Palazzo Bonocore, che dall’1 al 24 settembre ospita World Press Photo, vale a dire il più grande concorso di fotogiornalismo al mondo.
Oltre duemila presentatori in pochi giorni, la mostra ospita ogni sabato un grande nome della fotografia. Ieri era appunto il turno di Cipriano, che ha raccontato di una passione diventata lavoro dieci anni fa, «quando mi ritiro da Architettura e proseguo gli studi di fotografia partendo per New Work». Nella Grande Mela «ho capito come si racconta una storia per immagini. Uno dei miei primi lavoro è stato in the land of black coats: dovevamo fotografare per due settimane un angolo di strada, e io ho scelto il confine tra il quartiere ebraico e quello italiano».
Poco più di un esercizio di stile, insomma, che però viene apprezzato dal New York Times, che contatta Cipriano: «Mi chiedono di collaborare con loro, se sono d’accordo. Ma che domande sono?». Ha appena 25 anni ma per il giovane fotografo che viene da Torretta si aprono le porte più prestigiose, Le Monde e The Guardian tra tanti. La «frenetica e superficiale» vita newyorkese però lo stufa dopo tre anni, e così decide di tornare a Palermo dove gli mancavano «i rapporti umani». Fa un giro delle redazioni per autoproporsi, il suo curriculum è già importante, «ma tutti mi dicono che non c’è spazio per me, e non nego che ebbi diversi crisi».
Cipriano però non si scoraggia e riparte da zero con uno smartphone. Poi nel 2011 arriva la primavera araba, documenta i primi sbarchi a Lampedusa («faccio parte del circo mediatico» dice con autoironia) e poi arriva il lavoro che lo ha coinvolto per più tempo, che gli concede la notorietà anche in Italia. Si tratta di Politico, un reportage sui retroscena del potere che lo impegna dal 2012 al 2015. Il primo obiettivo è Leoluca Orlando, ai tempi della scorsa campagna elettorale (vinta anche allora). «Andavo a cercare i momenti a riflettori spenti – racconta il fotografo – che tirassero fuori i veri aspetti dei politici. Con un portfolio di 20 immagini mi propongo a L’Espresso, che accetta la mia proposta. Abbiamo lavorato per un mese, in condizioni ottimali che francamente non si vedono molto qui ma che all’estero sono la norma».
E tra tanti aneddoti il professionista sceglie di raccontare quella volta che, «unico tra gli italiani», riuscì a fotografare Grillo e Casaleggio a Roma spacciandosi per un celebre fotografo americano. O quella volta che l’ex sindaco della Capitale, Gianni Alemanno, «andò in tv a sventolare una copia de L’Espresso con la una mia foto su di lui in copertina». Quando arrivano le domande da parte del numeroso pubblico, Cipriano quasi si schernisce. «Là dove c’è un limite c’è uno stimolo – dice-. La mia è più fotografia di memoria che di denuncia. Al 90 percento uso il digitale, soprattutto una Canon e gli obiettivi fissi. Forse nel mio lavoro mi ha aiutato essere sempre minoranza: io sono uno timido, che però riesce a instaurare delle sintonie coi soggetti dei miei scatti, e questo lo devo alla mia vita errabonda tra Usa, Svizzera e Sicilia. Ovunque andassi ero sempre minoranza – spiega -. Negli Stati Uniti ero l’immigrato italiano, idem in Svizzera, mentre quando a 14 anni sono tornato a Torretta mi chiamavano lo svizzero».