L’Aquila e l’attimo fuggente

Parafrasando Kapuscinski, definito pater del reportage, a voler essere un vero reporter si deve viaggiare e accumulare esperienze, si deve cercare la spiegazione delle cause che stanno dietro ad ogni semplice descrizione dei fatti.
Tutti possono viaggiare, verso il mondo esterno o all’interno di sé stessi, fisicamente o con la fantasia, in modo continuativo o per fasi. Infinite sono le motivazioni, per capire o per capirsi, per divertirsi o per riposarsi, per semplice curiosità o per raccontare con sguardo personale ciò che ci accade intorno.
Inesauribili i ricordi che un viaggiatore si porta dietro, che può decidere di immortalare solo nella propria memoria, o decidere di offrire agli altri attraverso la scrittura, la pittura, la fotografia e il video, a vantaggio della durata fisica, della precisione e del dettaglio.
 
ValeriaAlessandro e Ali – una sarda, un siciliano e un arabo che il Festival Internazionale di Giornalismo ha fatto incontrare a Perugia – sono per l’appunto dei viaggiatori-cercatori di dettagli che, sulla soglia del loro quarto di secolo e accomunati da una grande passione per il reportage, nel 2009 partono per L’Aquila per cercare di raccontarla con propri occhi e parole.
I due ragazzi, arrivati là il sette aprile, descrivono i luoghi con tutta la drammaticità e la speranza delle ore successive alla tragedia. Valeria, nella cittadina abruzzese a un mese dal sisma racconta invece la consapevolezza e la rassegnazione degli aquilani che non avrebbero più rivisto familiari e case.  
 
Parlano chiaro i loro scatti fotografici che – sempre parafrasando Kapuscinski – colgono la verità di attimi fuggenti, autentici per il solo fatto di essere stati vissuti in prima persona. In esposizione al festival perugino di quest’anno con l’intento di dare «spazio a giovani meritevoli che si affacciano in un sistema che non è per niente meritocratico», ha detto l’organizzatrice Arianna Ciccone all’inaugurazione della mostra, durante la quale Step1 ha intervistato questi reporter emergenti.
 
Ma la mostra è un estratto di un lavoro più ampio che comprende anche dei testi e che trae nome dal reportage “Storie d’oro e di fango”, il quale non vuole essere una critica asfittica piuttosto un insieme di interrogativi e di riflessioni ben miscelati: «Ricostruiranno la città? E quando? Come mai il Papa è andato a L’Aquila ventidue giorni dopo, nonostante ci fosse la Pasqua di mezzo e due ore di distanza dal Vaticano? Gli aquilani lo volevano o no? E sono rimasti soddisfatti di quella visita e della passerella diplomatica?». E tante altre domande.
 
Il punto di vista di Valeria, che verte sull’importanza del lavoro del reporter «perché se nessuno racconta ciò che accade, è come se non fosse successo mai niente», converge nella sostanza con quello di Alessandro e Ali anche se diversi dal suo stile. «Il reportage deve sempre avere al centro le persone senza violare la loro intimità e le loro necessità» come non fanno invece alcuni giornalisti che irrompono nelle case, auto e tende o pongono domande inopportune. Per non essere degli sciacalli «occorre entrare in empatia con chi ha vissuto una tragedia aspettando con pazienza i suoi tempi».
 
Senza essere troppo ingombranti, perciò, cercando di trasferire a chi vedrà le foto «ciò che è successo – i fatti – senza dimenticare i sentimenti e il punto di vista personale», i tre girovaghi hanno osservato i luoghi, ma soprattutto le persone cogliendone l’espressività, perché tutto sta nello scoprire una simbologia, una metafora, un valore comune. Ali si è concentrato più sui superstiti per strada e negli ospedali, Valeria si è concentrata sulla vita quotidiana degli ospiti delle tendopoli. Alessandro sui soccorritori e sul silenzio della città.
 

Lo stesso silenzio «non sano ma forzato», acutizzato di mese in mese, che Valeria ha sentito palpabile quando è tornata quasi un anno dopo  (per vedere cosa era cambiato e quali promesse mantenute) alle pendici del Gran Sasso. Un silenzio che scoppia di tanto in tanto in fragorose grida, quando gli aquilani si sentono abbandonati a se stessi dovendo pagare tasse per case distrutte e per una ricostruzione fantasma, o ricevendo a volte “risposte”, come di recente, con colpi di manganellate.


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