Parla la mamma del siriano accusato di terrorismo «Non vedo mio figlio da un anno, chiedo giustizia»

«Che giustizia c’è per un ragazzo all’inizio della sua vita?». Se lo chiede Zinab Al Ghazawi, la madre di Morad, il 21enne siriano che secondo i magistrati della procura di Catania sarebbe un terrorista dell’IsisArrestato a dicembre 2015 subito dopo lo sbarco a Pozzallo – avvenuto dopo un viaggio in barcone insieme alla famiglia – da allora il ragazzo è stato trasferito in tre diverse strutture carcerarie tra cui Rossano Calabro, definita la Guantamo d’Italia. Adesso Morad Al Ghazawi si trova nel carcere di Sassari. Ha cambiato tre avvocati, anche a causa delle incomprensioni dovute alla lingua; al suo primo e decisivo interrogatorio non era presente un legale e ha spesso assistito alle udienze che lo riguardano senza interprete. Solo alcune delle ombre di una storia che ha visto persino pubblicato su diversi giornali un documento rinvenuto nei sette cellulari sequestrati al 21enne al momento dell’arresto in Italia: un esclusivo passaporto dell’Isis, secondo le forze dell’ordine e i magistrati; in realtà un fotomontaggio che gira da anni sul web e che riporta la foto di un cantante siriano emigrato in Svezia anziché di Al Ghazawi. Adesso, a parlare è la madre del ragazzo, rifugiata in Germania con parte della famiglia e con cui MeridioNews è riuscita a entrare in contatto. Zinab Al Ghazawi riporta la sua versione della storia dal principio e racconta di una quotidianità che sembra ormai sfumata. Resta solo qualche foto – nessuna della vita in Siria – perché la maggior parte dei ricordi della famiglia si trovano nei cellulari sequestrati dalla procura etnea.

La famiglia Al Ghazawi è originaria di Daraa, una città a sud della Siria. Zinab e il marito Nahith hanno sei figli: tre ragazzi, di cui Morad è il più piccolo, e tre ragazze. Alcuni sono sposati e hanno dei bambini. «Prima della guerra in Siria, la nostra era una bella vita – racconta la signora Al Ghazawi – Mio marito lavorava nell’edilizia insieme a Morad e la nostra situazione economica era molto buona». Ma nel 2011 cambia tutto. I media internazionali e i social network rimandano le immagini della rivoluzione contro il regime di Bashar Al Assad. «Allora Morad non aveva ancora compiuto 16 anni e non aveva nemmeno fatto il servizio militare. Durante il primo anno la rivoluzione era pacifica, ma dopo è diventata violenta e la nostra casa si trovava in una zona che ha subito bombardamenti e diversi scontri». Al punto che la famiglia Al Ghazawi decide prima di spostarsi verso il nord del Paese e, dopo sei mesi, di lasciare la Siria. Attraverso la Giordania e l’Egitto, arrivano in Libia. «Siamo rimasti per tre anni in una casa in affitto nella città di Al-Zawiya – continua Zinab Al Ghazawi -. Mio marito aveva trovato di nuovo lavoro come muratore, insieme a Morad. Ma, quando la situazione libica è peggiorata, abbiamo deciso di spostarci di nuovo». Così a dicembre 2015 in sei – madre, padre, Morad, due sorelle e Mohamed, il marito di una di loro – affrontano il viaggio verso l’Europa via mare. Al costo di dodicimila dinari libici, cioè circa ottomila euro.

«Il viaggio sul barcone è durato otto ore ed è stato come vivere la morte. In mare ci ha salvato la nave di Medici senza frontiere, su cui siamo rimasti a bordo due giorni, per poi sbarcare a Pozzallo. Mentre scendevamo dalla nave di salvataggio hanno fermato mio figlio Morad e Mohamed, per chiedere il riconoscimento del comandante dell’imbarcazione con cui siamo partiti dalla Libia. Noi, invece, siamo stati portati in un centro di accoglienza dove speravamo che ci raggiungessero mio figlio e mio genero». Poche ore dopo, invece, a tornare è solo Mohamed. «Ci ha detto che Morad era stato fermato dalla polizia per via del numero e del contenuto dei telefoni che aveva con sé. In totale sette cellulari, perché lui custodiva quelli di tutta la famiglia – spiega la madre -. Quando siamo partiti, mio figlio era in un barcone diverso dal nostro, composto per lo più da famiglie; mentre il nostro era pieno di uomini. Ci era sembrato più sicuro affidare tutti i telefoni a lui, per paura che da noi li rubassero». Da allora Morad è in arresto e da più di un anno non vede la sua famiglia. Tranne che per un brevissimo episodio. «L’hanno tenuto al campo per circa dieci giorni, in una stanza di due metri quadrati, insieme ad altri, seduti sempre in un’unica posizione. Mio figlio piangeva, io lo vedevo dal vetro e, una volta, ci ho sbattuto contro le mani così forte da ferirmi. Dopo questo incidente mi hanno lasciato vederlo per cinque minuti e hanno iniziato a trattarlo meglio, li portavano a camminare un po’ in cortile».

Dopo di che le strade di Morad e della sua famiglia si separano. Lui viene trasferito prima a Bicocca, poi a Rossano Calabro e, per finire, in Sardegna. Ma questo la madre per molto tempo non lo sa. «Abbiamo cercato di trovarlo e raggiungerlo, ma senza successo. Sappiamo solo che l’hanno accusato di cose che non sono vere. Accuse pesanti, di fare parte dell’Isis, solo perché ha posato in una foto con un’arma in mano, scattata un anno prima di uscire dalla Siria, nel 2012, quando era un ragazzino e l’Isis in Siria nemmeno era arrivata». Senza considerare che, in uno scenario di guerra, posare con un’arma in mano è considerato normale da molti giovani che giocano a fare i grandi. Ma nei cellulari trovati addosso a Morad ci sono anche foto di cadaveri. «Sono immagini di amici morti in guerra, combattendo contro l’esercito di Assad – racconta Zinab Al Ghazawi -. Ogni famiglia siriana ha sul cellulare le foto dei propri cari, amici o parenti, morti». Dopo l’arresto di Morad, la sua famiglia viene trasferita al Cara di Bari, dove resta per quasi una settimana. «Poi abbiamo preso un treno fino a Milano e un altro per Stoccarda, in Germania. Lì, in un campo profughi, abbiamo mostrato i nostri documenti e chiesto asilo. Ora siamo rifugiati politici, uno status regolare». Condizione che accomuna tutta la famiglia Al Ghazawi, compreso un fratello rifugiato in Giordania. Eccetto, ovviamente, Morad. «Non vedo mio figlio da dopo dello sbarco – conclude la madre -. Noi abbiamo fiducia nella giustizia italiana e aspettiamo che venga liberato affinché possa raggiungerci e vivere in pace».


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