Dopo la bufala del passaporto del Califfato nero, trovato nei cellulari del 21enne in arresto dal 2015, nuovi dubbi si addensano intorno a un'altra presunta prova della procura etnea: le foto con il capo della brigata Martiri di Daraa, per i magistrati morto e legato a Daesh. Ma gli esperti smentiscono. Guarda le foto
Le altre falle nell’accusa contro il siriano Al Ghazawi Il suo amico Mufid Abu Nader non è dell’Isis ed è vivo
Abbigliamento da guerra e bandiere nere con scritte in arabo. Sono gli elementi per i quali Mufid Abu Nader «inequivocabilmente risulta appartenere ai militanti dello Stato islamico», per cui sarebbe anche morto. Almeno secondo la procura di Catania. E sono anche tra i motivi principali per cui il 21enne siriano Morad Al Ghazawi si trova in carcere da più di un anno con l’accusa di terrorismo. Sbarcato a Pozzallo a dicembre 2015, è stato arrestato perché trovato in possesso di sette cellulari – quelli di tutta la famiglia partita con lui, secondo il racconto della madre – e numerose immagini. Tra cui il finto passaporto dell’Isis ritenuto vero dai magistrati etnei e diverse foto collegate appunto ad Abu Nader, a capo del gruppo siriano Martiri di Daraa. Di cui lo stesso Al Ghazawi avrebbe detto di fare parte nel corso di un primo interrogatorio poco chiaro. Ma se il lasciapassare di Daesh si è presto rivelato una bufala, scarso fondamento sembrano avere anche le analisi delle foto incriminate, stando ai numerosi esperti contattati da MeridioNews.
Per inquadrare la storia, occorre prima fare un passo indietro. Le famiglie di Al Ghazawi e Abu Nader vengono entrambe da Daraa, una cittadina rurale all’estremo sud della Siria, poco distante dal confine con la Giordania. Daraa occupa largo spazio nelle pubblicazioni di Lorenzo Trombetta, giornalista e studioso della Siria contemporanea, che la indica come primo luogo delle proteste del 2011 contro il regime di Bashar Al Assad, dopo gli iniziali timidi segnali a Damasco. Lì si sarebbero registrate le prime tre vittime della rivoluzione. A luglio 2011, pochi mesi dopo queste prime morti, nasce l’esercito siriano libero (Fsa), che chiama a raccolta soprattutto i disertori dell’esercito regolare e a cui presto si uniscono i civili. Sebbene negli anni lo scenario siriano si sia fatto complesso nel definire i rapporti tra Fsa, l’ex gruppo qaedista Al-Nusra e l’Isis, a oggi l’esercito siriano libero non compare nella lista delle organizzazioni terroristiche.
E, secondo il racconto dei protagonisti, è proprio all’Fsa che farebbero riferimento Abu Nader e il suo gruppo ribelle al regime di Assad, chiamato brigata Martiri di Daraa in onore di quelle prime tre vittime della rivoluzione. Per la mamma di Morad, Zinab Al Ghazawi – arrivata nel 2015 in Sicilia insieme al figlio e oggi rifugiata in Germania – Abu Nader sarebbe stato un loro vicino casa, «una persona che difendeva la zona dove abitavamo. Anche lui è scappato dalla Siria dopo che la sua casa è stata distrutta e i suoi due figli uccisi». La stessa Zinab racconta di aver prestato primo soccorso agli uomini della brigata feriti in battaglia e di essere rimasta in contatto telefonico con Abu Nader. È così che avrebbe ricevuto le foto trovate dalla procura. E in effetti il presunto terrorista Abu Nader risulta essere vivo e racconta oggi a MeridioNews di aver lasciato la Siria a giugno 2015 e avere ottenuto pochi mesi dopo, a dicembre, lo status di rifugiato in Giordania, Paese poco tenero nei confronti degli uomini del Califfato nero.
A verificare per MeridioNews la fondatezza della storia raccontata da Abu Nader e dalla famiglia Al Ghazawi è anche Aymenn Jawad Al-Tamimi, ricercatore di Jihad-intel, gruppo di intelligence sul terrorismo islamico nato all’interno del Middle East Forum statunitense che dal 1994 collabora con le forze dell’ordine Usa per fornire interpretazioni e strumenti di contrasto al terrorismo. «Per quanto ne so, il gruppo Martiri di Daraa non è legato allo Stato islamico. È uno dei gruppi targati Fsa che operano nella città di Daraa – spiega -. Stando alle mie conoscenze, inoltre, non c’è nessuna prova che leghi Mufid Abu Nader allo Stato islamico a Daraa, al momento rappresentato da una formazione che si chiama Jaysh Khalid bin al-Waleed». Al-Tamimi si basa sulle informazioni di alcune sue fonti in Siria, e sullo studio delle immagini e del profilo Facebook in arabo dei Martiri di Daraa. Sui simboli che compaiono nelle foto contestate dalla procura etnea e che potrebbero far pensare anche ad altri gruppi jihadisti oltre l’Isis, come ad esempio Al-Qaeda, aggiunge: «La bandiera nera con la scritta bianca non può essere considerata di per sé un legame terroristico. Stando ai fatti, niente lega Abu Nader allo Stato islamico o ad Al-Qaeda».
E proprio sulle foto si è soffermata la relazione redatta per questa testata da Alessandra Raggi, responsabile logistica di Time for peace Genova, e Fouad Roueiha, responsabile per la Siria dell’osservatorio romano su Iraq, Medioriente e Nordafrica. In due scatti, i drappi neri alle spalle di Abu Nader riportano in bianco due preghiere. Nel primo caso si tratta della shahadah, la testimonianza di fede musulmana che recita «Non c’è divinità se non Allāh e Maometto è il suo messaggero», una sorta di preghiera base utilizzata anche in diversi vessilli di gruppi terroristici, ma che nel caso specifico non riporta alcun segno jihadista o di un gruppo in particolare. Nel secondo caso c’è invece la fatiha, la prima sura del Corano, esposta abitualmente nelle case in cui si professa la religione musulmana, come il crocifisso nelle abitazioni cristiane. In un’altra foto ancora appare il logo dei Martiri di Daraa: un’aquila che abbraccia il tricolore usato dalla Repubblica siriana nelle sue parentesi democratiche. Reso ancora più curioso dalla somiglianza con uno scatto che circola online nei forum di appassionati del videogioco Grand Theft auto e utilizzato come simbolo della polizia dell’immaginaria città di San Fierro. Un’altra immagine, infine, ritrovata nel cellulare di Morad Al Ghazawi riporta lo slogan «Meglio la morte che l’umiliazione» e il simbolo della rivoluzione siriana, diffuso in tutto il mondo tramite i social network e, come tutte le bandiere nazionali, non riconosciuto dall’Isis.