Vincere, la sconfitta dell’Uomo

È uscito nelle sale ‘Vincere’, del regista Marco Bellocchio unico italiano in concorso al Festival di Cannes. Salutato da molti come un capolavoro, il film racconta la storia di Ida Dalser (Giovanna Mezzogiorno), che diede un figlio a Mussolini (Filippo Timi) col quale si era sposata prima del suo matrimonio con Rachele Guidi. Abbandonata e disconosciuta, la Dalser condusse caparbiamente la sua battaglia di donna, di sposa e di madre tradita, inviando lettere persino al Papa. Per soffocare lo scandalo, il Duce fece internare lei e il piccolo Benito Albino in un ospedale psichiatrico di Milano dove morirono entrambi.

Ho parlato altre volte ai lettori di Step1 di Marco Bellocchio e dei suoi film, mi viene assai più difficile questa volta, sono alquanto intimidito, vorrei molto semplicemente invitarvi tutti a vedere quest’opera di grande arte cinematografica, vorrei riuscire a spiegarvi perché anch’io, come tanti ben più qualificati spettatori, sono convinto che si tratti di un capolavoro; credo che per farlo dovrei essere capace di fornire almeno qualche traccia di quella che a me pare una nuova estetica cinematografica. 

La forza delle immagini di questo film è la forza di questa nuova estetica; ci lavora da tempo Bellocchio, ne ha dato prova nei suoi ultimi film, ma qui raggiunge pienamente la meta: riuscire a fondere in un modo assolutamente originale realtà e finzione, documento e invenzione, narrazione e rappresentazione. Da sempre il cinema si porta dietro questa doppia personalità, dalla sua nascita, ricordate? Lumière e Méliès: la riproduzione della realtà e l’illusione. Ma il modo in cui Bellocchio realizza la fusione è un gioco così complesso e affascinante… C’è, per esempio, l’uso di filmati d’archivio dell’epoca del fascismo, che entrano nella rappresentazione in modo tale da comporre un’immagine unica, senza alcuna sovrapposizione rispetto al piano della vicenda narrata; non si tratta solo di un artificio sapiente dal valore meramente formale, perché in questo modo il regista fa sì che quei filmati assumano un senso nella narrazione, emerge il loro essere manifestazione di quella grande finzione, di quella tragica mascherata che il fascismo è stato. Il culmine di questo intreccio si raggiunge nel passaggio dalla visione del discorso di Taranto, in cui risuona il grido che dà il titolo al film e in cui Mussolini esibisce il suo agghiacciante manierismo, all’imitazione che ne fa l’attore nella parte del figlio rifiutato, Benito Albino: maschera di una maschera, che rivela la follia del potere mentre egli stesso nella follia sta precipitando.  

C’è il rapporto che Bellocchio instaura tra la ricostruzione della vicenda storica, documentata, e la sua trasformazione in rappresentazione tragica che trascende (come ogni grande creazione artistica) il fatto reale; e la grande protagonista è Ida Dalser. Non credo abbia senso chiedersi se la vera Dalser fosse come l’ha splendidamente realizzata Giovanna Mezzogiorno con una prova d’attrice che deve aver annebbiato la vista dei giurati di Cannes. È stata davvero Ida Dalser una donna innamorata nel modo in cui vediamo l’Ida di questa rappresentazione? In grado di vivere il proprio desiderio così intensamente, e di legarlo alla propria identità di donna emancipata, non conformista, sicura di sé? Ha poco senso chiederselo, ciò che vediamo è un’immagine inventata dall’autore del film, un’immagine dirompente, che allude molto più che a una particolare realtà storica, a una possibilità di realizzazione che forse, in qualunque momento sia apparsa, magari solo fugacemente, ha provocato lo smarrimento dell’identità maschile, e le reazioni più violente. La scena in cui Mussolini trova in casa la Dalser nuda, assopita, in completo abbandono, e poi al suo risveglio viene a sapere che lei ha venduto tutto per sostenere la sua impresa, credo sia una delle più belle e memorabili del film: nel gioco di sguardi c’è annunciata la tragedia, la fuga dell’uomo che una tale capacità di decisione, una tale forza e superiorità non potrà accettare, dovrà distruggerla, facendosi piuttosto un restauratore dell’ordine patriarcale in cui per una donna simile non c’è alcuno spazio. Così mentre la rappresentazione si stacca dal piano della mera ricostruzione storica, e parla forse di tutti i tempi e di infinite esistenze, e parla cioè del rapporto tra uomini e donne, nello stesso tempo sulle vicende storiche narrate getta una luce nuova, ci chiede di riflettere su quanto il crollo di fronte alla sfida di una possibile nuova identità femminile abbia pesato nel determinare destini personali ed eventi storici che vengono sempre studiati con le categorie della politica, dell’economia, della sociologia, della filosofia. Ma noi vediamo la Dalser, la sua sconfitta, la sua distruzione,  la sua silhouette che si staglia controluce sulle immagini proiettate per glorificare il regime, e l’uso magistrale dei filmati d’epoca ci mostra le  coppie di sposi in processione, o un gruppo di donne che allattano messe una accanto all’altra, le immagini di regime dell’unico ruolo che alle donne era assegnato.  

Ci sono tante altre scene memorabili, quelle per esempio, ambientate nel manicomio di San Clemente, in cui troviamo altre splendide realizzazioni del passaggio dal piano del realismo più crudo a quello dell’immaginazione sognante. E c’è la scena dell’incontro tra la Dalser e un giovane psichiatra che le propone una via di uscita dalla sua ostinazione suicida, da quella impossibile guerra di una piccola donna sola contro l’enormità del potere;  le suggerisce la strada lunga della resistenza, e l’arte della gestione intelligente di una maschera che protegga la propria identità. Ida Dalser non è in grado di accettare, l’esito tragico del film è fedele alla realtà storica; in Buon giorno notte Bellocchio aveva inventato un finale liberatorio, qui non ha voluto.  Quell’identità che lo psichiatra le propone, il personaggio della tragedia non ce l’ha; potrebbe trovarla magari nel rapporto con quello stesso medico dal quale viene allontanata? Sarebbe l’identità di chi è in grado di distinguere tra la negazione e il rifiuto. Ma nella storia del `900 questa distinzione i rivoluzionari, i ribelli, non l’hanno conosciuta né saputo farla.


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