Santapaola-Sedici, le motivazioni delle condanne «Boss Aiello si attivò per nascondere i cadaveri»

«Prove solide» che hanno resistito ai tentativi degli avvocati di smontarle e che sono state arricchite dalle «dichiarazioni» dei testimoni del processo d’Appello, tra cui quelle di alcuni nuovi collaboratori di giustizia come Davide Seminara Fabrizio Nizza. È questo il quadro generale che sintetizza le motivazioni che i giudici della corte d’Assise, presieduti da Dorotea Quartararo, hanno scelto per confermare la condanna all’ergastolo per il capo provinciale di Cosa nostra Vincenzo Aiello. Accusato, insieme al titolare di un lavaggio per auto di Palagonia, Salvatore Di Bennardo, dell’omicidio del reggente della famiglia mafiosa etnea Angelo Santapaola e del suo guardaspalle Nicola Sedici. Un delitto eclatante, risalente al 26 settembre del 2007, che si è consumato per interrompere l’ascesa criminale della vittima, cugino di primo grado dello storico boss Nitto Santapaola. «Un personaggio preponente», hanno detto di lui i pentiti. Capace di accreditarsi in maniera autonoma davanti alla cupola palermitana di Cosa nostra. 

Le conclusioni della sentenza di primo grado vengono accolte anche dai giudici del processo d’appello in particolare per il ruolo di vertice che Aiello avrebbe rivestito all’epoca dei fatti. «Appare conclamato – si legge nelle motivazioni – dall’unanime voce dei collaboratori e dai precedenti per mafia». Un passaggio importante in considerazione di quanto viene contestato all’altro imputato, ritenuto colpevole di favoreggiamento aggravato.

Angelo Santapaola era un personaggio prepotente

Di Bennardo, secondo l’accusa, si sarebbe infatti occupato di pulire l’automobile con cui i corpi delle vittime erano stati trasportati nei pressi di un casolare in contrada Monaco nel territorio di Ramacca, dopo essere giustiziati in un ex macello abbandonato in contrada Passo Martino, lungo la strada Catania-Gela. I cadaveri erano stati ritrovati dai carabinieri tre giorni dopo il delitto, bruciati, mutilati e avvolti dentro alcune buste di plastica. Un tentativo di occultamento rivelatosi fallimentare grazie alla presenza delle fedi nuziali delle vittime con l’incisione dei nomi. 

«Era consapevole dello scenario che c’era dietro alla richiesta di aiuto», scrivono i giudici nelle motivazioni. Di Bennardo, proseguono i togati, «non aiutava solo il capo ma anche Alfonso Fiammetta, la cui partecipazione all’associazione era nota». Un fatto, legato dal rapporto di parentela del lavagista con il presunto boss di Palagonia, che – secondo la sentenza – dimostrerebbe la «consapevolezza Di Bennardo di avere aiutato la famiglia di Cosa nostra dei Santapaola-Ercolano». La scelta dei giudici viene affiancata alla «straordinarietà della richiesta». Di Bennardo infatti non avrebbe lavato la macchina sporca di sangue nel suo autolavaggio ma in «un luogo riservato, trasportando prodotti specifici come spazzole, detersivi, panni e smacchiatori e quanto meno una pompa per l’acqua e un asciugatore».

I giudici nelle motivazioni ripercorrono tutte le fasi che hanno portato all’omicidio. Dall’ascesa criminale di Angelo Santapaola fino alla decisione di ucciderlo. Per eseguire il delitto boss e gregari sfruttarono l’occasione di una riunione indetta insieme ad alcuni capimafia palermitani. Quando però quest’ultimi non si presentarono per la seconda volta consecutiva all’incontro sarebbe stato Vincenzo Santapaola, figlio del capomafia Nitto, a dare l’ordine di rompere ogni indugio e procedere con l’uccisione. La descrizione di quella giornata viene fornita dalla dichiarazione del collaboratore di giustizia Santo La Causa che accusa il boss Orazio Magrì di avere eliminato Santapaola e Sedici. Aiello, presente in quella circostanza armato, «si adoperava per nascondere i cadaveri» perché «nulla era stato programmato per le fasi successive dell’omicidio».


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