Non un uomo d’onore, ma talmente vicino alla famiglia Santapaola, quella di sangue, tramite i rapporti d’amicizia fraterni coi figli del capomafia Nitto, da poter essere nominato reggente dell’intera famiglia mafiosa Santapaola-Ercolano. Con la benedizione, dal carcere, di Mario Ercolano. È l’ascesa di Francesco Russo, imprenditore 50enne di Misterbianco, nel Catanese, arrestato nell’operazione Ombra di […]
Mafia, il nuovo assetto dei Santapaola-Ercolano: il reggente era l’imprenditore «amico fraterno» di Enzo Santapaola
Non un uomo d’onore, ma talmente vicino alla famiglia Santapaola, quella di sangue, tramite i rapporti d’amicizia fraterni coi figli del capomafia Nitto, da poter essere nominato reggente dell’intera famiglia mafiosa Santapaola-Ercolano. Con la benedizione, dal carcere, di Mario Ercolano. È l’ascesa di Francesco Russo, imprenditore 50enne di Misterbianco, nel Catanese, arrestato nell’operazione Ombra di oggi, che ha richiesto l’impiego di oltre 200 uomini e donne della polizia, anche oltre i confini siciliani in aiuto dei colleghi diretti dal questore Giuseppe Bellassai. L’indagine ha permesso di ricostruire il fitto sistema di vertici creato a protezione di Russo, tracciando una mappa dell’organigramma mafioso catanese dal 2022 a oggi, dopo l’arresto dell’ex reggente Francesco Napoli. E sono stati proprio gli incontri riservati – ma monitorati dalla polizia – tra un Napoli ancora libero e Russo a far concentrare le attenzioni degli investigatori sull’ascesa criminale di quest’ultimo. Indagini nate, però, dalla frangia Ercolano della famiglia mafiosa, «con un Mario Ercolano che, nonostante la detenzione, rimaneva decisivo anche nella scelta dei ruoli apicali, grazie a una fitta rete di relazioni in carcere e all’uso illecito di micro-cellulari, con il fondamentale ruolo del fratello Salvatore», spiega Paolo Lisi, vice questore e dirigente della sezione etnea del Servizio centrale operativo (Sco). Tra le nuove nomine mafiose, a seguito degli arresti dei vertici, anche quella di Carmelo Daniele Strano come responsabile del gruppo della Stazione e di Carmelo Fazio a Cibali. In tutto a essere raggiunti oggi da ordinanze di custodia cautelare sono state 25 persone: 18 in carcere, cinque ai domiciliari e due sottoposte all’obbligo di dimora.
Tutto però avrebbe fatto capo a un uomo che «agiva nell’ombra», in maniera così maniacale da dare il nome all’indagine. Francesco Russo, già coinvolto nel 2016 nell’operazione Bulldog con le accuse di concorso esterno alla mafia e furto, veniva allora definito «un elemento di cerniera, non affiliato a Cosa nostra, ma che si sarebbe occupato di svolgere alcune mansioni delicate». «Un uomo a disposizione del clan» a cui ci si sarebbe rivolti «per superare singole criticità o bisogni». Anche in virtù della storica e trentennale amicizia con Vincenzo Santapaola, figlio di Nitto. Raccontata nelle aule del carcere di Bicocca durante il processo Iblis: quando tra gli accusati di avere un ruolo apicale nella famiglia mafiosa c’era proprio Enzo u nicu, e Russo interveniva come sconosciuto testimone, allora giovane imprenditore nel settore dell’abbigliamento – con un lussuoso e costoso negozio in corso Italia – a favore dell’amico fraterno. Un rapporto nato con il fratello minore di Enzo Santapaola, Francesco, e cresciuto con l’assidua frequentazione dell’intera famiglia. Non proprio una strana amicizia, considerato che Russo è nipote di Sergio e Maurizio Signorino, esponenti dei Santapaola, uccisi rispettivamente nel 1998 e nel 2010. Secondo i magistrati, per l’amico Vincenzo avrebbe svolto anche il ruolo di portavoce e mediatore di affari delicati e complessi: dalla Russia a Malta, passando per i colloqui con elementi di spicco del clan come Santo La Causa, ex storico reggente poi diventato collaboratore di giustizia. Ruolo che, in quasi dieci anni, lo avrebbe portato alla promozione.
Un nuovo ruolo gestito con una discrezione definita «esasperata», con l’assoluto divieto di nominarlo e una rete di fidati collaboratori. Primo tra tutti Christian Paternò, classe 1981, a cui era stato affidato il ruolo di referente operativo e di scudo. Con il compito di coordinare i vari gruppi cittadini, gestire le entrate e le uscite della bacinella comune, mediare nei rapporti con gli altri gruppi criminali. Quelli pericolosi – come la sventata guerra contro il clan Cappello – ma anche quelli buoni, come il patto di mutuo soccorso con gli Assinnata di Paternò. Ma a Christian Paternò sarebbe toccato, soprattutto, allontanare qualunque possibile indagine da Russo, assumendo su di sé i rischi. Una scelta pratica, considerato che nel 2017, quando viene coinvolto nell’operazione anti-estorsione Chaos, Paternò è uno dei pochi affiliati – del gruppo di San Giovanni Galermo, di cui negli ultimi anni avrebbe assunto la responsabilità – rimasti ancora liberi. A curare invece le comunicazioni con Russo, diventando il suo unico interlocutore diretto, sarebbe stato chiamato un uomo d’esperienza: lo storico esponente della famiglia mafiosa Salvatore Mirabella, detto u paloccu, classe 1965. Nuovi vertici con una «certa propensione a ricorrere sistematicamente alla violenza e alle armi come strumento per ribadire la loro autorità criminale».
Un dettaglio non da poco, in un periodo in cui ci si concentra sulla mafia silente degli affari e sulla zona grigia con politica e imprenditoria. «Con il rischio di sottovalutare la parte operativa, oggi meno appariscente – commenta Marco Garofalo, a capo della prima divisione dello Sco – Un rischio che qui a Catania non correte, vista la capacità di Cosa nostra di reperire, gestire e progettare di utilizzare dei veri e propri arsenali». Con il rischio di far scoppiare vendette e rappresaglie, in seguito a episodi monitorati dagli investigatori. Come le minacce e la rissa a suon di colpi con il calcio delle pistole scoppiata la scorsa estate in un lido di Aci Castello, nel Catanese, o l’aggressione a Salvatore Gabriele Santapaola – a sua volta armato – chiusa in diplomazia in virtù del suo cognome. In un’occasione sarebbe stato lo stesso Francesco Russo a superare la sua nota cautela, per gambizzare un uomo che gli aveva mancato di rispetto al lavoro. Fino alla sparatoria dello scorso ottobre nel quartiere catanese San Cristoforo, quando un esponente del clan Cappello – Salvatore Pietro Gagliano, nipote del collaboratore di giustizia Michele Vinciguerra – avrebbe sparato nei confronti di alcuni esponenti dei Santapaola. Mettendo in moto un piano di vendetta che prevedeva il suo omicidio. Un metodo classico, ma discusso con mezzi moderni: una video-chiamata su Instagram.