Una festa per riappropriarsi di San Berillo La prostituta: «Bisogna riportare le famiglie»

«Non si viene a San Berillo da turisti, noi non siamo manichini da fotografare. Affinché ci sia un vero cambiamento bisogna riportare qui le famiglie». Francesco Grasso si prostituisce per vivere. A cambiare lavoro ci ha provato. Ha seguito – come molti suoi colleghi e colleghe – diversi corsi per badante e infermiere specializzato. Ma, al momento dell’assunzione, «per noi non c’è mai posto, perché per molti dietro la parola travestito non c’è una persona». Ieri insieme a Franchina, com’è noto Grasso nel suo ambiente, diverse prostitute stavano sedute in via Carro. Per lo più trans, quai tutti italiani. Con l’eccezione di due sex workers colombiane. Insieme a loro, hanno preso posto alla festa di quartiere a San Berillo abitanti, curiosi e attivisti. Una serata per stare insieme e ragionare sul futuro del quartiere organizzata dal gruppo di studio che ha curato la pubblicazione Urban Cultural Maps: una mappa creativa e stratificata della storia del quartiere, attraverso la sua conformazione urbana e i suoi abitanti. Di ieri e di oggi, prima e dopo lo sventramento.

Via Carro è uno stretto budello parallelo a via Sangiuliano. Nemmeno le mappe satellitari sanno dov’è, ma gli abitanti del quartiere sì. Quando cala il sole, lì comincia a radunarsi una piccola folla. Ognuno con la propria sedia in una mano e qualcosa da mangiare nell’altra, come da programma. C’è chi si siede a chiacchierare e chi osserva con curiosità la mappa. Appesa al muro tra una porta murata e l’altra e costruita attraverso le testimonianze degli ex abitanti del quartiere, oggi quasi un dedalo di vie fantasma e abitate per lo più da prostitute e uomini e donne senegalesi. Alcuni video – del documentarista Carlo Lo Giudice e dell’archivio privato della regista Maria Arena – proiettati nel corso della serata ricostruiscono in parte il lavoro del gruppo. C’è il signor Grasso, bambino al tempo delle ruspe che hanno abbattuto quasi l’intero quartiere, oggi un uomo adulto: «Questo era il più grande quartiere popolare di Catania, con i bambini nudi che si lavavano in mezzo alla strada. Ricordo però anche i bellissimi palazzi barocchi, il puparo e via San Giuliano che allora si chiamava via Lincoln». Ci sono Boian Angelov e la moglie Sasha, inquilini di una delle fosse di Corso dei Martiri, ex residenti – «Quando non c’erano povertà e disoccupazione» – in una casa in affitto a Nesima superiore: «Chiedo solo una cosa: civiltà». Presenti alla serata ci sono anche i bambini di San Berillo, che di alcune attività commerciali non conoscono nemmeno il nome.

La mappa esposta ieri in via Carro cerca di restituire proprio questa stratificazione di memoria e storia del quartiere. Lì sono indicate le aree colpite dallo sventramento, quelle poi riqualificate e quelle invece abbandonate. Tutte divise in lotti numerati, dalle spalle della statua di Vincenzo Bellini in piazza Stesicoro fino alla stazione etnea. Sulla carta, attraverso foto e indicazioni, sono riportate la vecchia zona industriale di San Berillo – con la fabbrica di conserve e di liquiriziae quella artigianale – con mestieri oggi quasi scomparsi come il liutaio e il seggiaro. «C’era un teatro dei pupi che appassionava così tanto – racconta un residente in video – che un giorno fuori scoppiò una rissa con i coltelli». «A San Berillo si viveva per strada, la merce degli artigiani si esponeva davanti alle porte e veniva venduta in giornata e le cene numerose si facevano tra i dedali», racconta Luca Lo Re, tra i curatori dello studio. «Quasi sempre si dormiva nella stessa stanza in cui si lavorava», racconta un altro ex abitante. Casa e putia dell’ex centro commerciale naturale cittadino cui oggi restano solo i ricordi. E pochi negozi storici, come la friggitoria Stella, «la prima di Catania a portare in città le crispelle», racconta Lo Re.

E poi c’è ovviamente la prostituzione. Parte della storia dell’ex quartiere a luci rosse di Catania. «Un tempo un’attività perfettamente integrata nel tessuto, ma che ne era solo una parte», spiega Lo Re. Con diverse case di tolleranza sparse per le vie, «dove le ragazze cambiavano ogni quindici giorni», ricorda un ex giovane di San Berillo, oggi forse nonno. Un mercato che ha anch’esso subito il ridimensionamento dovuto allo sventramento e «una vasta operazione contro le case chiuse nel 2000». Ma che resta forse l’unico pezzo di storia del quartiere ancora vivo. Tra la speculazione edilizia e le promesse di risanamento dei vari sindaci etnei. «Il problema è che le idee dei privati non coincidono con le esigenze dei cittadini», conclude Lo Re. «Le amministrazioni cambiano, ma noi residenti siamo sempre qua – commenta Roberto Ferlito – Allora perché nel frattempo non proviamo a rendere noi stessi più vivibile il quartiere? Da settembre cominceremo con le riunioni allargate del comitato».

 

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Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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