“Truman Capote: A sangue freddo”. La genesi di un romanzo


Titolo:
Truman Capote: A sangue freddo (Capote).
Regia: Bennet Miller.
Soggetto: Biografia di T. Capote di Gerald Clarke
Sceneggiatura:
Dan Futterman.
Fotografia: Adam Kimmel.
Musica: Mychael Danna.
Montaggio: Christopher Tellefsen.
Interpreti: Philip Seymour Hoffman, Catherine Keener, Clifton Collins jr, Bruce Greenwood.
Produzione: United Artist, Infinity Media.
Origine: U.S.A. 2005.
Durata: 113’

 

 

“Truman Capote: A sangue freddo” ovvero cosa si nasconde dietro la creazione di una grande opera letteraria. I compromessi, il cinismo e la perdizione a cui è disposto ad arrivare un grande scrittore per poter raggiungere i suoi obiettivi artistici. Il regista quasi esordiente Bennet Miller (proveniente dal documentario) sceglie un episodio della vita del grande Truman Capote per raccontarci tutto questo.

 

Nel 1959 Truman Capote, reduce dal grande successo di “Colazione da Tiffany”, legge quasi casualmente sul NY Times della violenta strage di una famiglia di ricchi contadini nel paesino di Holcomb, Kansas. Giornalista del “New Yorker”, Capote, decide di andare insieme all’amica d’infanzia, anch’essa scrittrice, Nelle Harper Lee (che l’anno successivo licenzierà il romanzo premio Pulitzer “Il buio oltre la siepe”) in quel luogo per scrivere un reportage sull’accaduto. L’articolo si trasformerà in un romanzo nella stesura del quale Capote resterà talmente coinvolto emotivamente da non riuscire più a riprendersi artisticamente.

 

La pellicola di Miller ha il suo maggior pregio nell’essere scritta in modo estremamente efficace dallo sceneggiatore Dan Futterman (da un romanzo di Gerald Clarke su T. Capote), ma ciò che la sceneggiatura lascia percepire in potenzialità viene vanificata da una regia in gran parte poco ispirata. Miller prende per intero lo script e lo realizza senza aggiungere niente dal punto di vista personale. Il risultato è che la pellicola resta una perfetta trasfigurazione filmica della sceneggiatura, ma priva di qualsiasi emotività e personalizzazione assolutamente necessari perché l’opera risulti efficace e coinvolgente. In questo Miller denota una mancanza tipica dell’autore di documentario che si limita a raccontare, a descrivere ma senza restare mai completamente coinvolto dalla vicenda. Il ritmo della narrazione, quello interno e quello esterno, estremamente lento, non aiuta in questo senso a provocare nello spettatore forte feeling emotivo con la storia e con i personaggi. Da ciò il fatto che le scene in cui dovrebbe essere maggiore il patos (come quella dell’esecuzione) risultano inattese, non giustificabili emotivamente e per questo poco credibili.

A fianco di questo però c’è da dire che la descrizione di un personaggio molto contrastato, cinico, manipolatore, disposto a tutto per raggiungere i suoi obiettivi risulta di un certo fascino per il pubblico. Questo grazie anche ad una straordinaria interpretazione di Philip Seymour Hoffman che è riuscito in maniera camaleontica a modificare il suo corpo e la sua recitazione in maniera talmente radicale da risultare assolutamente simile, e per questo credibile, alla fisicità e alla personalità di Truman Capote (peccato per il doppiaggio che sempre modifica leggermente la portata di un’interpretazione).

Forse un’occasione sprecata, ma comunque una pellicola che vale la pena di vedere, se non altro per il suo valore “storico”.


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